sabato 30 aprile 2011

L'onore e la passione (V parte)

Capitolo 7°
Il riscatto di Elsa

Damiano rimase sorpreso di fronte ad una vera tempesta di cattiverie gratuite, che da parte di Sandra si abbatterono, in seguito a quell’incontro, sulla vecchia amica Elsa.
Ma perché tanto odio? La risposta era ovvia : Sandra aveva iniziato così una nuova sessione di tecniche seduttive nei confronti di Damiano. Parole offensive, occhiatacce tese a svalorizzare Elsa per aumentare le possibilità di sedurre il suo capo: un aggressività tipicamente femminile tanto più feroce per il suo pieno periodo fecondo,quando il potenziale per il concepimento e la lotta per il compagno ideale, ormai cristallizzato, sono più intensi.
Elsa era dolce, forse carina, non bella , un volto però che non scatenava l’invidia intrasessuale, ma piuttosto la vicinanza, la complicità, la solidarietà delle altre donne. Sandra imperterrita e scatenata continuava invece a dire: “Elsa ha un viso insignificante: non capisco in che modo anche per il resto possa attrarre un uomo…”
Elsa invece, dal canto suo, soffriva e sopportava in silenzio. La sua condizione di inferiorità, di cui era pienamente consapevole, diventava sempre più drammatica e penosa. Non riconosceva in quella mitraglia di parole e occhiate minacciose, la Sandra di pochi anni prima, e non soltanto perché le circostanze erano cambiate ma anche perché, se lei era rimasta la "bambina" di sempre, sincera e schietta, adesso con la freschezza e la purezza del primo innamoramento, sognatrice ed idealista, Sandra era cambiata moltissimo: nei contatti quotidiani di una collaborazione impostagli ed accettata per amore del quieto vivere (e di Damiano), si rivelava molto pragmatica, cinica, talora sarcastica,intollerante, spesso in preda ad un selvatico incontrollabile furore...insomma era agli occhi dell'amica assolutamente irriconoscibile. Ma Elsa non era talmente ingenua da non capire quale fosse l'epicentro del terremoto e pensava e diceva altro mettendo in atto anche lei una tattica di seduzione nei confronti dell'uomo conteso. Se Damiano aveva provato all'inizio tenerezza nei suoi confronti, doveva alimentarlo questo sentimento: andava benissimo anche il ruolo della vittima indifesa, la "piccolina", e così via... Se Damiano non si fosse dimenticato di questo, presto sarebbe arrivato il giusto momento e modo di dimostrargli che avrebbe potuto e dovuto guardarla anche con occhi diversi...qui la donna (ogni donna) avrebbe saputo come fare.
Se poi Damiano scelse Elsa che diventò sua moglie, ciò appartiene ai misteri della passione amorosa, quel torrente di emozioni, turbamenti, pensieri e pulsioni, le cui componenti non sono mai abbastanza chiare, perché è un torrente torbido e in piena quando traligna e alluviona.
Cessata l'attività del campo UNRRA, la coppia scomparve per molto tempo agli occhi di Elsa che dal 1948 fino al 1988 continuò a cercare Damiano, ma Sandra seppe tenerglielo nascosto con ogni mezzo.
Ma nel frattempo dai colloqui con Damiano aveva imparato che la prova dell'onore che aveva appassionato parte della sua giovinezza per un ideale tramontato e superato dagli eventi (l'amor di patria inquinato dal nazionalismo e dalla mistica nazifascista) poteva essere applicata con passione al grande progetto della ricostruzione morale e materiale dell'Italia democratica: insieme a lui aveva potuto conoscere e apprezzare i nuovi padri della Patria fra cui il grande Enrico Mattei.
Elsa si sposò con Franco da cui ebbe due figli: vedova di Franco dal 1985, venne a sapere sul finire dell'estate del 1988 che Damiano era malato terminale di cancro al reparto oncologico dell'ospedale di Carrara.

Capitolo 8°
Il flashback: Margherita e Luciano (1943-44) e di nuovo insieme (2001)

Finalmente libera, ma anche sola, Margherita, uscendo dal campo di Casellina, insieme a quel vecchio zaino, pieno di sigarette, dolciumi e qualche scatoletta di carne, portava con sé anche un carico molto pesante di lutti, sofferenze, frustrazioni, angosce e… rimorsi; sì, rimorsi, ma anche rimpianti… sentimenti repressi, e un amore tradito, Luciano, il partigiano. Aveva fino a quel momento soffocato certe pieghe sentimentali e nostalgiche del ricordo, razionalizzando tutto a puntino: aveva esplicato il suo ruolo di informatrice e aveva compiuto la scelta più opportuna o forse l’unica che poteva compiere.
Era il 1° dicembre 1945 ed erano esattamente trascorsi due anni da quel 1° dicembre 1943 quando lo aveva incontrato in quella splendida terrazza sul lago.
Un’antica leggenda racconta che vicino a ogni lago abitano le fate. Di tanto in tanto, escono dalla loro grotta e vanno a danzare sul lago, suscitando una fitta e allucinante nebbia che avvolge le acque. Se poi, in quel momento, una presenza umana disturba la loro solitudine, esse si affacciano al limite della cortina di nebbia e, sorridenti e tentatrici, producono un incantesimo: ammaliano la creatura, la seducono e la conducono, a passi di danza, verso le acque, lasciandola poi inghiottire dalle misteriose profondità del lago.
E’ il 1° dicembre del 1943: una giovane signora impellicciata e austera è ferma su un lato della strada, possiede un’auto Balilla con qualche problema di meccanica, ferma in panne.
Un giovanotto con una motocicletta sidecar, rubata ai tedeschi, sta svoltando l’ultima curva della strada che s’incontra per chi viene dal paese: è Luciano e fa parte di un gruppo di partigiani, che si sono stabiliti sulla montagna (militari sbandati dopo l’armistizio di Badoglio, qualche renitente alla leva fascista repubblicana, altri che hanno fatto quella scelta, più o meno convinti, ma spinti da una qualche necessità).
Lui invece è già un commissario politico con una cultura e una consapevolezza.
I due sguardi s’incrociano: la donna è bellissima, alta, mora, misteriosa. Ma soprattutto c’è un magnetismo potentissimo negli occhi di Margherita che catturano la mente e il corpo di Luciano e non gli lasciano alcuna autonomia e libertà di giudizio e di movimento.
Da subito una dominatrice e un dominato (e una storia che ancora continua…). Margherita tutto si aspettava, meno che di vedere un tale temerario che viaggiava con un sidecar tedesco. Anzi pensò che si trattasse di un tedesco “fuori ordinanza”, quanto all’uniforme. “Kamerade, ich habe einen Fehler auf dem Auto, hilf mir” (Camerata, ho un guasto alla macchina, aiutami).
Luciano pensò che si trattasse di una signora tedesca e replicò anche lui in lingua tedesca… ma il suo tedesco non era credibile, per cui Margherita…“Insomma mi dai una mano?” - gli disse in italiano, sorridendo e concentrando in quell’approccio tutte le risorse della sua capacità di seduzione.
Mentre Luciano si apprestava a mettere le mani sul motore, lo sguardo di Margherita letteralmente lo avvolgeva, sino a turbarlo completamente e se ogni tanto sollevava lo sguardo verso Margherita, gli sembrava ancora che quest’ultima s’impadronisse di lui.
Si trattava comunque di un banalissimo inconveniente dovuto a un contatto elettrico che si era interrotto, per cui le elementari conoscenze tecniche di Luciano furono sufficienti allo scopo.
Margherita notò che Luciano aveva in tasca una pistola, e si affrettò a dire che era una studentessa universitaria e stava tornando dalla sua famiglia. Per contro Luciano rimediò dicendo di essere un operaio impiegato dai tedeschi nell’organizzazione Todt, alla vicina stazione ferroviaria e che sarebbe tornato in sede passando dalla parte bassa del lago.
Margherita pensò: “Tu non me la racconti giusta…”. E subito dopo: “Però è veramente un bel ragazzo!”
Parlarono, ma senza approfondire nulla: ogni approfondimento o giudizio personale poteva essere un indizio di riconoscimento dell’uno da parte dell’altro.
Erano due sconosciuti che però cercavano ambedue un qualsiasi pretesto per avere qualche chance di rivedersi.
Margherita tuttavia rimaneva ben salda nel suo ruolo segreto e nelle motivazioni, per quanto conflitto poteva esserci nella sua psiche.
Ed era sicuramente la prima volta che si sentiva realmente sedotta dal fascino maschile, anche perché di là dai tratti fisici, Luciano conservava uno stimolo adolescenziale e una tenerezza che pescava molto bene nella sua latente ambiguità sessuale.
“Mi piacerebbe rivederti” - propose Margherita intrigante e seducente e aggiunse (non era più una proposta o un desiderio, ma quasi un ordine) che l’avrebbe aspettato il sabato successivo nella locanda del borgo, giù in basso, in riva al lago.
Luciano annuì positivamente: era sorpreso, estasiato, con il cuore in gola la vide salire in auto e partire. Anche Margherita non aveva aggiunto altro: il silenzio significava che tutto era deciso e non c’era niente da aggiungere.
E Luciano tornò in montagna fra i suoi compagni. L’appuntamento fissato fu con straordinaria puntualità rispettato da ambedue. Grande curiosità aveva suscitato nella locanda l’arrivo della giovane signora elegante e misteriosa che aveva parcheggiato la sua automobile lì di fronte al pizzicagnolo dai mille odori, mentre nel bar le pulsioni e i desideri avevano lo stesso respiro dei dialoghi intercalati da esclamazioni blasfeme e l’aroma inebriante del vino.
Arrivò Luciano, un personaggio che a quanto pareva non era del tutto sconosciuto ai presenti, che gli rivolsero un qualche cenno di saluto. Poi arrivò il segretario locale del fascio repubblicano, un fascista della prima ora, che aveva fatto qualcosa di buono per il paese, senza raccogliere grandi consensi o simpatie in nessun momento anche quando era segretario del PNF, più temuto e scansato che odiato. Quanto agli oppositori del fascismo e in questo momento ai partigiani, che più o meno conosceva e per i quali aveva olfatto come il cane per i tartufi, egli non se ne era mai occupato personalmente e direttamente, per non sporcarsi troppo le mani.
Anzi aveva sempre promosso la sua immagine istituzionale, di funzionario del partito, moderato, tollerante, pacificatore ed anche autorevole mediatore dei conflitti che talvolta nascevano tra la popolazione e i pochi tedeschi del genio ferrovieri presente nella vicina stazione.
Muovendosi in questo modo pensava di garantirsi uno spazio futuro possibile in una società postbellica di cui s’intravvedeva la non continuità con il fascismo, dato l’andamento della guerra.
Quando però Fabio C., “la barba repubblichina”, (aveva, infatti, una folta barba nera da cappuccino, nonostante i sessanta inoltrati) entrò nel bar, qualcuno si defilò, qualcuno lo ossequiò, altri ostentarono con lui una familiarità e un’amicizia posticcia, ma in tutti prevalse subito un grande silenzio.
Lui osservò in giro, guardò anche la coppia inconsueta, senza soffermarvisi di proposito, riflettendo poi su una tazza di caffè surrogato che l’oste gli aveva somministrato: cercava di ascoltare quello che si dicevano e in questo senso l’improvviso silenzio, con l’eccezione di qualche bisbiglio, gli era propizio, ma non riusciva a capire il senso del discorso salvo qualche parola.
Fabio poteva sapere chi fosse Margherita, perché l’aveva intravista in federazione conferire a lungo con il federale che l’aveva poi salutata in modo molto confidenziale, mentre l’altro non era del paese, ma vi capitava spesso, talvolta insieme a personaggi molto discutibili - ovviamente dal suo punto di vista.
E quindi, così com’era solito fare, non chiedeva, non indagava localmente, ma andava a riferire settimanalmente in federazione su tutto ciò che riteneva utile e interessante per la “causa”, cui aveva dedicato tutta la sua esistenza.

Inutile dire che il feeling iniziale fra i due ragazzi si trasformò quasi subito in un rapporto di amore completo e passionale e seguirono altri giorni di appuntamenti e momenti di grande emozione ed esplosione della loro esuberanza giovanile.
Un vecchio pescatore del borgo, che sta sotto la punta della collina, luogo del loro primo incontro, era solito accompagnare i due amanti Margherita e Luciano con la sua barca all’isola del lago, dove aveva per loro procurato un nido di amore in una casetta dalla soglia erbosa proprio sulla riva.
Sembravano una cosa sola, due frammenti di moneta che unendosi ricomponevano esattamente un’unità, sembrava che la guerra e le sue insidie non potessero in alcun modo toccarli.
Era inverno, un aereo in avaria va a schiantarsi là, dietro al castello che domina l’isola. Il vecchio smette di remare per guardare la colonna di fumo che va in alto verso il cielo e nello stesso tempo sembra oscurare la vista dell’isola stessa.
Nulla di quello che sta accadendo, sembra scuotere i due ragazzi che stanno completamente avvolti per il freddo e per il bisogno di una maggiore intimità sotto alcune coperte.
Tonio guarda la guerra e i due amanti: due realtà che sembrano assolutamente non appartenersi, lontane fra loro centinaia di anni luce, eppure sono drammaticamente così vicine e coinvolgenti.
La passeggiata, che parte dall’abitato dell’isola e in mezzo a tanta vegetazione dai mille profumi costeggia a est l’isola stessa, era la loro stanza dei ricordi e il teatro delle loro effusioni più dolci e malinconiche: sembravano quasi due bambini con tanta voglia di giocare, scherzare, recitare…
Ma la malvagità della guerra imprigionava la freschezza e l’esuberanza della magica età dei vent’anni; appartenevano, infatti, a una generazione alla quale è stata crudelmente rubata la gioventù e sono state sacrificate tutte le certezze e gli ideali con cui era cresciuta.
Il federale convocò Margherita per informarla che, se aveva conosciuto quel giovane, quella conoscenza poteva tornare utile alla causa repubblicana.
Quindi Barbiccia aveva riferito.
Non gli interessava conoscere le motivazioni che l’avevano spinta ad approfondire quella conoscenza, perché erano abbastanza evidenti dalla sua immediata reazione emotiva: la invitava, però, a controllare i propri sentimenti, rimanendo sul piano del sesso e a coltivare quel rapporto per ricavarne utili informazioni.
Gli risultava, infatti, che appartenesse quasi sicuramente a una delle bande partigiane che si muovevano nelle montagne e che adesso, era inverno, avevano grosse difficoltà logistiche e di movimento in gruppo e stavano quindi rintanate in qualche covo protetto dalle caratteristiche dei luoghi.
Quindi, come si suole dire, doveva unire l’utile al dilettevole assumendo l’incarico di prendere ogni informazione utile allo scopo.
Margherita avrebbe preferito che tutto ciò non fosse avvenuto: che la cosa non si fosse risaputa e che non le fosse stato affidato alcun incarico che adesso le procurava turbamento, angoscia e conflitto interiore.
Intimamente disprezzava quell’invadenza del capo nella sfera della sua intimità privata: “Unire l’utile al dilettevole”. Non era una libertina o di facili costumi: anzi viveva con Luciano questa esperienza assolutamente speciale con introspezione, turbamento, fantasia. Doveva svelare a se stessa, al di fuori del rapporto sessuale tecnicamente inteso, quali erano i confini reali della sua femminilità, non soltanto biologica.
Un giorno Luciano che non poteva sospettare l’inquietante situazione in cui si trovava Margherita e la sua vera identità di osservatrice e agente segreto della RSI (non era ancora stata fatta l’ulteriore scelta di servire lo Stato fascista in divisa come ausiliaria), cercò di scoprire quali fossero le idee politiche della ragazza. E più che riceverne risposta, ingenuamente e incautamente si lasciò andare a considerazioni e confessioni, che non sorpresero per niente Margherita che tuttavia non avrebbe mai voluto sentire, pretendendo per di più da lei una risposta che non poteva essere se non quella dettata dal suo ruolo e dall’incarico ricevuto, una risposta banale, evasiva, assolutamente falsa.
E così Margherita malvolentieri seppe che c’era un paesino di là da quella montagna e poi scendendo la valle e ancora risalendo la dove la montagna sembra brulla di alberi, ancora dietro sulla costa.
Quella costa della montagna appenninica era una zona ideale per l’insediamento di chi volesse nascondersi e riuscire a fuggire agevolmente. Riogreve, come il torrente che gli ha dato il nome, un nucleo di case abitate da boscaioli che funzionava da base logistica per l’attività dei partigiani che preferibilmente stavano rifugiati ancora più su, in baracche, capanne fatte di legno e grandi zolle di terra per i tetti e rifugi naturali. La zona intorno era poi densamente popolata da renitenti per la sua conformazione fisica, fatta di poderi isolati che, soprattutto in inverno, quando acqua e ghiaccio fanno delle strade sterrate vere paludi, creava notevoli problemi di comunicazione.
Si estendeva poi in una conca di dossi e di piccoli boschi le cui vie d’accesso erano facilmente controllabili. Le contrade, i fienili isolati, le capanne, le grotte e la vegetazione del bosco più fitta garantivano nascondigli sicuri. I prati alti, a nord, e i versanti boscosi della valle a est, costituivano delle vie di fuga ideali per far perdere in fretta le proprie tracce.
Più volte soldati tedeschi, disertori o fuggitivi, erano capitati a metà costa e la semplice generosa gente di montagna li aveva accompagnati sui sentieri che andavano verso nord.
Più volte la gente li aiutò per evitare che cadessero nelle mani dei partigiani. Era una vera “terra della libertà”, dove non erano le ideologie e le leggi scritte a imperare, ma il buon senso e la coscienza della gente comune.
La storia fra Margherita e Luciano procedeva inesorabilmente. Più il fronte si avvicinava e più spesso si vedevano nella zona del lago formazioni di aerei inglesi e americani, grossi quadrimotori chiamati “fortezze volanti”, che salivano verso nord per bombardare centri strategici.
Quel giorno, mentre i due amanti stavano appartati in un canneto in riva al lago, uno di questi aerei fu colpito dalle contraeree tedesche e non poté proseguire l’itinerario stabilito. Tornò indietro verso il lago e vi sganciò tutte le bombe: sembrava la fine del mondo e la prova generale della tragedia, sempre più incombente, del fronte in arrivo.
Margherita, fredda e glaciale in tante situazioni ed anche caratterialmente, riguardo a Luciano era terribilmente combattuta dentro di sé. Avrebbe voluto dirgli: “Scappa. Non sono quella che credi!” Non aveva paura della sua reazione, ma neppure il coraggio di affrontare le conseguenze di una sua disobbedienza a chi pianificava ogni momento della sua giornata e attività, non soltanto per paura di perdere la propria vita, ma anche perché non se la sentiva dopo una vita di stenti di rinunciare ai privilegi che quella posizione le offriva e che comunque presto sarebbero finiti.
Su quel lago tutto quello che facevano e si dicevano, si rifletteva in tanti specchi…
Il federale stringeva in modo ossessivo su Margherita fino a minacciarla, se avesse continuato, come si suole dire in Toscana, a “menare il can pe l’aia”. Margherita fece prevalere la fredda ragione al sentimento e rivelò il nome della località che faceva soltanto da base all’attività dei partigiani e non già l’esatta dislocazione che peraltro non conosceva.
E fu così che capitò a Riogreve un soldato tedesco a bordo di una camionetta carica di armi. Disse che voleva consegnarle ai partigiani e lui stesso aveva disertato e voleva arrendersi a loro. Non era la prima volta che disertori o sbandati si presentavano per un qualche motivo e avevano ottenuto l’aiuto della gente. Qualcuno aveva aiutato volentieri qualche tedesco.
Una volta una contadina aveva ammazzato un galletto. Arrivarono tre tedeschi e lo videro. Fecero segno di cuocerlo arrosto. La donna glielo cosse, se lo mangiarono e ringraziarono. Continuavano a dire: “Danke, mama” (Grazie, mamma!). L’anziana donna gliel’aveva dato volentieri il galletto. Quei tedeschi erano gentili. Uno le disse: “Domani noi torneremo qui ancora”. Tornò il giorno dopo con un sacco di tabacco, sale e biscotti.
Una volta, dopo che lui aveva tanto insistito, i montanari accompagnarono un soldato tedesco fino in fondo alla valle, indicandogli la strada per proseguire verso la città che voleva raggiungere oltre l’Appennino e non finiva mai di ringraziare i suoi accompagnatori.
Stavolta però era diverso: trattandosi di armi, furono avvertiti i partigiani, che uscirono allo scoperto; quindi nascoste le armi, decisero di sotterrare la camionetta, per paura che i tedeschi in rastrellamento la trovassero. Gli uomini del paese furono costretti a scavare
una buca nel prato di una villa abbandonata e a seppellirla. Le donne, con le scope, raddrizzarono l’erba che era stata schiacciata dalle ruote. Il giorno dopo i partigiani ordinarono di disseppellirla: uomini, giovani, ragazzi furono costretti ad aiutare, mentre loro guardavano. Poi i partigiani si travestirono da fascisti e partirono per la città dove andarono nelle botteghe a farsi dare farina, riso, conserva di pomodoro, perfino scope di
paglia. La farina era qualche quintale. La suddivisero e la nascosero un po’ per ogni casa e il resto in una baracca. Tornarono anche con 50.000 lire: che si spartirono e siccome in quel frangente erano in dieci, toccarono 5.000 lire a testa.
Il fatto più incredibile fu che il soldato tedesco che si era consegnato ai partigiani, e che era stato con loro per più di una settimana vedendo i loro nascondigli e le loro postazioni, riuscì a fuggire. Era stato mandato per spiarli.
È certo che di lì a poco giunse un rastrellamento, era la fine di aprile del 1944, e fu l’ultimo, quello che scacciò definitivamente i partigiani dalla zona. I tedeschi sapevano tutto, perfino dove i partigiani avevano nascosto la farina. Vennero a prenderla e se la portarono via. Anche i fascisti, come già i partigiani pretendevano dalla povera gente del villaggio, si fecero dare da mangiare e, se trovarono qualcosa, la rubarono.
Una famiglia aveva cinque o sei pollastrelle. I fascisti arrivarono, spararono e se li portarono via. Furono perquisiti tutte le case e i poderi, interrogati uomini e donne. E intanto alcune donne, che avevano sentito degli spari e credevano che i loro uomini fossero stati colpiti, erano in casa a piangere e a recitare il rosario.
Il grosso dei militi, infatti, circa 200 fra GNR, carabinieri, un plotone di polizia e soldati tedeschi, stava rastrellando in una superficie molto vasta e avevano sparato, credendo di aver avvistato alcuni partigiani nascosti in una macchia di cespugli.
Ma niente di fatto: di partigiani, renitenti o altro neppure l’ombra. Nel frattempo combattenti della stessa brigata assalivano un convoglio di dodici camion nazifascisti, bloccandoli ad un passo appenninico e circondandoli, facendo molti prigionieri e impossessandosi di viveri e armi modernissime.
Lo smacco era pesante: il federale a questo punto ordinò a Margherita di consegnargli il partigiano del cuore; altrimenti l’avrebbe consegnata alle SS che l’avrebbero fucilata o almeno deportata. Non le restò, con il cuore in gola, che aderire alla richiesta: fissò con Luciano l’ultimo appuntamento per il 30 aprile 1944 nella stessa terrazza sul lago, dove si erano incontrati per la prima volta.
L’automobile in attesa era quella, ma Margherita non c’era: quando Luciano se ne avvide, era troppo tardi, veniva arrestato e tradotto al carcere della città toscana.
Il tradimento di Margherita era evidente ma Luciano poteva anche pensare che fosse stata costretta a farlo e, convinto dei suoi buoni sentimenti, non cessava di amarla.
Resistette e sopravvisse a torture fisiche e morali, rimase fedele al giuramento, non tradì i compagni e non rivelò nomi, luoghi e numeri.
Nell’anticamera della morte volle scrivere a Margherita una lettera tragica e appassionata, documento drammatico e sublime di un Amore con la lettera maiuscola che non si ferma di fronte a qualsiasi ostacolo, senza limiti e condizioni, puro, esclusivo, totalizzante.
Chiese ai suoi aguzzini che fosse recapitata alla ragazza.
Chiese l’assistenza spirituale di un sacerdote e gli fu assegnato quel cappellano toscano che aveva conosciuto durante il servizio militare a Padova, quando era sottotenente di complemento della Regia aeronautica militare fino all’8 settembre 1943.
Don Umberto chiese a Luciano, ormai visibilmente depresso e irriconoscibile, un atto di fede in Dio e nei suoi confronti: conosceva un conte podestà repubblichino, che aveva aiutato molti ebrei e salvato anche qualche partigiano, attraverso documenti falsi di dimissione o di trasferimento dal carcere firmati dal comandante tedesco della piazza, che venivano forniti da un ufficiale tedesco in procinto di disertare, ma che voleva in cambio metalli preziosi o denaro. Il conte avrebbe provveduto in tal senso.
Appena il giorno seguente, due SS impeccabili fingevano un italiano stentato, producendo al direttore del carcere un documento d’immediato trasferimento ad altro carcere del detenuto in oggetto e Luciano poteva, salito in auto e discretamente lontano dal carcere, riabbracciare i suoi compagni che lo avevano recuperato.

Così come in un flashback, i ricordi e le immagini di quel tragico passato scorrevano nella mente di Margherita, mentre sola e dilaniata nei propri sentimenti, usciva dal campo di concentramento di Casellina il 1° dicembre 1945. Mentre si avviava verso la sua casa fiorentina o quello che di essa rimaneva, con il passaggio dei bombardamenti e delle vicende belliche, frugava un po’ nello zaino che non aveva mai abbandonato.
Nella tasca interna era ancora salva, gelosamente custodita la lettera di Luciano.
Margherita aveva saputo della sua fuga, prima di partire per il Nord nell’estate del 1944 per seguire i fascisti in fuga prima dell’arrivo delle truppe alleate nella città toscana.
Scrive l'autore G.Bronzi (già Specchi sul lago 1944)

“1° dicembre 1943: nell’Italia centrale, su una splendida terrazza che si affaccia sul lago, si incontrano Margherita e Luciano, “una giovane bellissima e conturbante, spietata spia nazifascista e un partigiano ignaro, appassionato e coraggioso. Ne nasce un rapporto ambiguo e tormentato, amore e odio, amore e morte”.

Così un giornale del 1945, che visse per breve tempo e fu una caduca creatura del servizio di propaganda del Comitato di liberazione nazionale, pochi fogli ingialliti e irrimediabilmente danneggiati in alcune parti dall’alluvione di Firenze del 1966 che devastò anche la Biblioteca nazionale di Firenze, ne parlava con echi di vendetta e aperta condanna, per finire che bisognava stanare fino all’ultimo fascista e collaborazionista e fare giustizia rapida e sommaria, altrimenti non sarebbe stato possibile dare alla luce la nuova Italia democratica e rivoluzionaria.
La lettura dell’articolo mi spinse ad approfondire e a fare ricerche. Firenze, Reggio Emilia, Genova, documenti, lettere, parenti, amici, resistenze, e alla fine in un ospizio (era il 2000) una signora di settantasette anni, ancora bella a suo modo, capelli ancora neri, uno sguardo fiero: è lei l’aquila altera che sto cercando. Mi rendo subito conto di avere di fronte a me un personaggio straordinario. Margherita (questo non è il suo vero nome) è disposta a raccontare tutta la sua storia, a condizione che io ne faccia un romanzo, salvando la sua privacy e quella delle persone che entrarono nella sua vita.
E’ una donna culturalmente preparata ed ha una personalità complessa: non si può semplificare e ridurre la sua vicenda alla sentenza manichea espressa da quel quotidiano. Mi chiede di non esprimere giudizi e di attenermi ai fatti sia pure in forma romanzata e quindi “improbabile” per quello che riguarda i luoghi e la cornice dei fatti stessi.
La sua storia con il partigiano Luciano (questo è il nome che gli ho dato io) è soltanto un flashback in un susseguirsi di avvenimenti tragici e significativi che vanno dal 25 aprile 1945 fino all’1° dicembre dello stesso anno e che danno anche a quella vicenda la giusta luce interpretativa.
Mi rendo conto così che dovrò scrivere non soltanto un romanzo storico, ma anche psicologico, perché quest’aspetto determina la complessità, la profondità e il fascino del personaggio.
Compare così anche il personaggio di Elvira, l’amica del cuore, sua camerata, ausiliaria della RSI come lei, ed entrambe addette ai servizi speciali.
Il partigiano Luciano chiude così il triangolo.
Tutti i dati e le notizie raccolte mi conducono poi a lui: a differenza della sempre single Margherita, Luciano è un nonno con tanti nipoti e tre figli che vive ormai da pensionato sulle colline toscane. Scampato alla morte con l’evasione dal carcere, dopo la delazione di Margherita, che non cessò mai di amare neppure dopo il tradimento scrivendole una lettera tragica e appassionata, documento drammatico e sublime di un Amore con la lettera maiuscola che non si ferma di fronte a qualsiasi
ostacolo, senza limiti e condizioni, puro, esclusivo, totalizzante, egli è il vero semplice, ingenuo, istintivo, puro eroe della Resistenza.
E mentre lo ascolto raccontare la sua versione dei fatti, mi accorgo che ormai ottantenne non ha perso quei tratti adolescenziali che uniti a un aspetto fisico eccellente tanto colpirono l’incerta e ambigua sessualità di Margherita.
Se per Margherita Luciano appartiene a un flashback sia pure ricorrente, per Luciano è diverso: nonostante tutto, essa continua a essere la padrona della sua mente e del suo cuore e non li abbandona un attimo da quel giorno della primavera del 1944 quando la vide per l’ultima volta, fra tanti “specchi”.
Mentre egli racconta, la moglie di Luciano lo ascolta e mi ascolta. Conosce la storia di Margherita da sempre, non è stata mai in un qualche modo gelosa di questo fantasma (forse una realtà - pensava) che da sempre occupa la mente del marito: per lei è, o meglio è stata, una rivale che avrebbe sempre voluto conoscere; è molto più giovane del marito, ex imprenditore, sempre adorato dalle donne, segretarie, amiche; per lei Luciano è stato una conquista, nonostante i venti anni di differenza, ma la conquista di un territorio sempre da difendere ed ha sempre lealmente accettato, senza tragedie, di contrastare e ridurre in qualche modo gli spazi talvolta reali, e non sempre virtuali, occupati dalle sue rivali.
Perciò è pronta a conoscere anche Margherita: sembra fare sul serio anche questa volta, ma io capisco che è ormai soltanto curiosità e pensa di gratificare il suo Luciano facendosi vedere questa volta davvero gelosa. E lui si compiace un po’ gallo cedrone, come tutti i maschi... Plaudo all’intelligenza di questa donna: si chiama Anna. Mi sovviene Dante: “Donne ch’avete intelletto d’amore…”.
Luciano m’invita a pranzo, conosco una figlia che è venuta a far loro visita e che adora il padre, che per lei è un eroe, un uomo eccezionale, un fuoriclasse per usare un linguaggio sportivo, un vincente sempre. Teme che io ne faccia una vittima, ne riduca la statura che emerge soprattutto, secondo lei, da quello che è poi riuscito a realizzare, per i traguardi conseguiti come imprenditore, e che l’hanno vista fin da piccola mascotte presente a tutte le cerimonie e occasioni pubbliche che coinvolgevano il padre.
Questo”amarcord”a lei piace non più di tanto e vede in questo gioco per il quale non simpatizza, una complicità cerebrale e quasi “perversa” della mamma. Mi accorgo che è estremamente protettiva nei confronti del padre del quale dice di essere sempre stata fin da piccola innamorata: è anche lei rivale, come normalmente accade fra madre e figlia.
Ma la storia mette radici così profonde nella memoria individuale e collettiva che in occasione del convegno Assomeet svoltosi a Marotta di Mondolfo (provincia di Pesaro) in una caldissima giornata del luglio 2001, presso la sala Arcobaleno gentilmente concessa dal comune di Mondolfo, alla presenza di oltre 70 over settanta e over ottanta provenienti da ex fronti avversi, Margherita e Luciano si sono di nuovo incontrati: lui sembrava ancora il giovanotto appassionato di un tempo, lei solo apparentemente un po’ fredda e distaccata, anche se con modi gentili e contenuti in uno stile del tutto suo.
Ma mentre lo ascoltava a testa alta guardandolo con quegli occhioni aperti e non dolcissimi che lo penetravano irresistibilmente, da quegli occhioni a Margherita sono scese lacrime non consuete e con grande sorpresa di Luciano e di tutti, me compreso, ha tirato fuori quella lettera che le fece pervenire tramite i suoi aguzzini dal carcere e che Margherita ha sempre conservato gelosamente e si è sciolta subito dopo in un pianto più
deciso, seguito dalle parole: “Devi sapere che, contro ogni realtà contraria o apparenza, io ti ho sempre amato fin dal primo momento. Quel giorno di aprile sul lago avrei voluto dirti: “Scappa. Non sono quella che credi”. Non avevo paura della tua reazione, ma non ebbi il coraggio di affrontare le conseguenze di una mia disobbedienza a chi pianificava ogni momento della mia giornata e attività, non soltanto per paura di perdere la mia vita, ma anche perché non me la sentivo dopo una vita di stenti di rinunciare ai privilegi che quella posizione mi offriva e che presto sarebbero comunque finiti. Su quel lago tutto quello che facevamo e ci dicevamo, si rifletteva in tanti specchi.
“Con il ghiaccio nel cuore, pago le mie debolezze”.
Luciano le ricordò di averla ancora cercata con la massima discrezione e ritrovata, durante l’ultima detenzione a Casellina:
“Venni a farti visita, ma non mi fu consentito di incontrarti: ti lasciai dei regali”.
“Fui informata e ricevetti i tuoi regali: pensai a te, avevo i brividi”.
Una buona cena in riva al mare al ristorante California di Marotta, lungo e anch’esso molto “gratificante”, chiuse la giornata mentre sul mare erano esplosi per una festa fuochi d’artificio e tutti guardavamo, loro guardavano e si guardavano, mentre la moglie di Luciano divertita e a suo modo soddisfatta, mi sorrideva curiosamente.
Poi si avvicinò a me e mi disse sommessamente e maliziosamente ironica in un momento che loro, i due, non ci ascoltavano: “Almeno adesso il fantasma è stato allontanato un po’ dalla realtà, gli anni non si nascondono”.
Le replicai con un sorriso come cenno di aver compreso, ma io vivevo in un’atmosfera particolare quasi da sacerdote del tempio, o da mago ruffiano amante e ricercatore di storie estreme e non troppo convenzionali…
Una lettera recente di Margherita
in occasione della pubblicazione di SPECCHI SUL LAGO 1944 (1^ edizione 2009)
Gentile professor Bronzi,
ho letto le bozze del romanzo che mi ha inviato e
devo dire che ha disegnato abbastanza bene il mio
personaggio. Quindi mi congratulo con Lei. Riguardo al
capitolo terzo, quando si parla della fucilazione del
gruppo di ausiliarie e soldati, riporti esattamente il
racconto dei fatti della comandante del Servizio ausiliario
femminile Piera Gatteschi Fondelli, così come vengono
ricordati nelle sue Memorie, anche se nella trasposizione
spazio-temporale hanno date e luoghi diversi, così come le
ho chiesto di fare.
Noi ne fummo testimoni.
Quanto alla foto della modella che lei ha scelto
per la copertina, devo dire che dice molte cose di me e mi
piace anche quel look moderno… che mi fa sentire al
passo con i tempi!?!
Nel dopoguerra, appena le circostanze me lo
consentirono, ripresi gli studi universitari di lettere e mi
laureai con una tesi sul contributo delle donne impegnate
nella guerra civile 1943-45, nell’uno e nell’altro fronte.
Eravamo a cavallo degli anni cinquanta e sessanta e non
era facile parlare di queste cose, con tutti; c’era
soprattutto il rischio di non essere capite.
Io facevo outing (si direbbe oggi) con estrema
disinvoltura, così come anche Lei ha fatto nel suo libricino
Il cuore delle donne (bravissimo! uno stile perfetto in quel
“frammento di cuore e di memoria”), ma gli altri, le altre
facevano soltanto politica e non erano autentici e sinceri,
neppure con se stessi.
Il tema della mia riflessione era e rimase per
molto tempo questa: le donne, le grandi dimenticate della
storia, fasciste o partigiane, collaboratrici degli uni o
degli altri, rimasero sconfitte, le eterne perdenti…e
tornarono ai fornelli.
Inoltre si cercò di sminuire, ridurre meriti e
demeriti. Lei sa che io non nego mie precise responsabilità
e colpe e non voglio attenuanti o sconti o comprensioni
perché donna.
Quasi che fosse non soltanto improbabile, ma
quasi impossibile che una donna potesse essere
veramente e responsabilmente una spia.
E a dimostrazione di ciò alcuni curiosi paradossi
che i pregiudizi portavano con sé: un avvocato che mi
difese nell’indagine giudiziaria legata alle sanzioni per i
reati fascisti (che scattò al mio rientro a casa, poiché la
trovai occupata da sfollati i quali cercavano ogni pretesto
per non restituirmela), mi raccontò che aveva esaminato i
fascicoli giudiziari di novanta donne romane, accusate,
subito dopo la liberazione, di collaborazionismo.
Si trattava solo d’istruttorie perché l’amnistia,
firmata il 22 giugno 1946 dal guardasigilli Palmiro
Togliatti, impedì che anche le persone rinviate a giudizio
fossero sottoposte a processo ed eventualmente
condannate.
Cosa ne era emerso? Il giudizio quasi unanime di
carabinieri, avvocati e magistrati era sostanzialmente che
le donne hanno capacità troppo limitate per fare
attivamente e consapevolmente le spie.
Alcune donne lo erano state veramente, mentre
altre erano innocenti. Ma l’amnistia impedì che si
conoscesse la verità e tutte vennero coinvolte nello stesso
giudizio popolare, a tal punto che a volte la gente tentò di
far giustizia sommaria da sé, ma, per fortuna, a Roma, i
Comitati di liberazione di quartiere si opposero ai
linciaggi.
Insomma i nuovi magistrati “democratici” e le
forze dell’ordine affermarono, che, almeno per le donne,
era cambiato poco: sarebbero state ancora cittadine di
serie B, perenni minorenni incapaci perfino di essere
davvero cattive, mosse solo dal desiderio di essere moglie,
mamma e donna di casa.
Insomma niente era cambiato rispetto al
fascismo, anzi era pregnante un processo involutivo, se si
pensa alla novità di noi, in quanto servizio ausiliario
femminile, donne-soldato.
Come insegnante di liceo cercai più volte di
aprire una riflessione sul tema e su altri argomenti
correlati con i miei studenti, ma anche gli anni 70 non
erano ancora maturi. La storia del fascismo era ancora un
tabu! La vera emancipazione femminile una chimera.
Con i migliori auguri
“Margherita”

www.tedescotraduzioni.com

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