sabato 30 aprile 2011

L'onore e la passione (V parte)

Capitolo 7°
Il riscatto di Elsa

Damiano rimase sorpreso di fronte ad una vera tempesta di cattiverie gratuite, che da parte di Sandra si abbatterono, in seguito a quell’incontro, sulla vecchia amica Elsa.
Ma perché tanto odio? La risposta era ovvia : Sandra aveva iniziato così una nuova sessione di tecniche seduttive nei confronti di Damiano. Parole offensive, occhiatacce tese a svalorizzare Elsa per aumentare le possibilità di sedurre il suo capo: un aggressività tipicamente femminile tanto più feroce per il suo pieno periodo fecondo,quando il potenziale per il concepimento e la lotta per il compagno ideale, ormai cristallizzato, sono più intensi.
Elsa era dolce, forse carina, non bella , un volto però che non scatenava l’invidia intrasessuale, ma piuttosto la vicinanza, la complicità, la solidarietà delle altre donne. Sandra imperterrita e scatenata continuava invece a dire: “Elsa ha un viso insignificante: non capisco in che modo anche per il resto possa attrarre un uomo…”
Elsa invece, dal canto suo, soffriva e sopportava in silenzio. La sua condizione di inferiorità, di cui era pienamente consapevole, diventava sempre più drammatica e penosa. Non riconosceva in quella mitraglia di parole e occhiate minacciose, la Sandra di pochi anni prima, e non soltanto perché le circostanze erano cambiate ma anche perché, se lei era rimasta la "bambina" di sempre, sincera e schietta, adesso con la freschezza e la purezza del primo innamoramento, sognatrice ed idealista, Sandra era cambiata moltissimo: nei contatti quotidiani di una collaborazione impostagli ed accettata per amore del quieto vivere (e di Damiano), si rivelava molto pragmatica, cinica, talora sarcastica,intollerante, spesso in preda ad un selvatico incontrollabile furore...insomma era agli occhi dell'amica assolutamente irriconoscibile. Ma Elsa non era talmente ingenua da non capire quale fosse l'epicentro del terremoto e pensava e diceva altro mettendo in atto anche lei una tattica di seduzione nei confronti dell'uomo conteso. Se Damiano aveva provato all'inizio tenerezza nei suoi confronti, doveva alimentarlo questo sentimento: andava benissimo anche il ruolo della vittima indifesa, la "piccolina", e così via... Se Damiano non si fosse dimenticato di questo, presto sarebbe arrivato il giusto momento e modo di dimostrargli che avrebbe potuto e dovuto guardarla anche con occhi diversi...qui la donna (ogni donna) avrebbe saputo come fare.
Se poi Damiano scelse Elsa che diventò sua moglie, ciò appartiene ai misteri della passione amorosa, quel torrente di emozioni, turbamenti, pensieri e pulsioni, le cui componenti non sono mai abbastanza chiare, perché è un torrente torbido e in piena quando traligna e alluviona.
Cessata l'attività del campo UNRRA, la coppia scomparve per molto tempo agli occhi di Elsa che dal 1948 fino al 1988 continuò a cercare Damiano, ma Sandra seppe tenerglielo nascosto con ogni mezzo.
Ma nel frattempo dai colloqui con Damiano aveva imparato che la prova dell'onore che aveva appassionato parte della sua giovinezza per un ideale tramontato e superato dagli eventi (l'amor di patria inquinato dal nazionalismo e dalla mistica nazifascista) poteva essere applicata con passione al grande progetto della ricostruzione morale e materiale dell'Italia democratica: insieme a lui aveva potuto conoscere e apprezzare i nuovi padri della Patria fra cui il grande Enrico Mattei.
Elsa si sposò con Franco da cui ebbe due figli: vedova di Franco dal 1985, venne a sapere sul finire dell'estate del 1988 che Damiano era malato terminale di cancro al reparto oncologico dell'ospedale di Carrara.

Capitolo 8°
Il flashback: Margherita e Luciano (1943-44) e di nuovo insieme (2001)

Finalmente libera, ma anche sola, Margherita, uscendo dal campo di Casellina, insieme a quel vecchio zaino, pieno di sigarette, dolciumi e qualche scatoletta di carne, portava con sé anche un carico molto pesante di lutti, sofferenze, frustrazioni, angosce e… rimorsi; sì, rimorsi, ma anche rimpianti… sentimenti repressi, e un amore tradito, Luciano, il partigiano. Aveva fino a quel momento soffocato certe pieghe sentimentali e nostalgiche del ricordo, razionalizzando tutto a puntino: aveva esplicato il suo ruolo di informatrice e aveva compiuto la scelta più opportuna o forse l’unica che poteva compiere.
Era il 1° dicembre 1945 ed erano esattamente trascorsi due anni da quel 1° dicembre 1943 quando lo aveva incontrato in quella splendida terrazza sul lago.
Un’antica leggenda racconta che vicino a ogni lago abitano le fate. Di tanto in tanto, escono dalla loro grotta e vanno a danzare sul lago, suscitando una fitta e allucinante nebbia che avvolge le acque. Se poi, in quel momento, una presenza umana disturba la loro solitudine, esse si affacciano al limite della cortina di nebbia e, sorridenti e tentatrici, producono un incantesimo: ammaliano la creatura, la seducono e la conducono, a passi di danza, verso le acque, lasciandola poi inghiottire dalle misteriose profondità del lago.
E’ il 1° dicembre del 1943: una giovane signora impellicciata e austera è ferma su un lato della strada, possiede un’auto Balilla con qualche problema di meccanica, ferma in panne.
Un giovanotto con una motocicletta sidecar, rubata ai tedeschi, sta svoltando l’ultima curva della strada che s’incontra per chi viene dal paese: è Luciano e fa parte di un gruppo di partigiani, che si sono stabiliti sulla montagna (militari sbandati dopo l’armistizio di Badoglio, qualche renitente alla leva fascista repubblicana, altri che hanno fatto quella scelta, più o meno convinti, ma spinti da una qualche necessità).
Lui invece è già un commissario politico con una cultura e una consapevolezza.
I due sguardi s’incrociano: la donna è bellissima, alta, mora, misteriosa. Ma soprattutto c’è un magnetismo potentissimo negli occhi di Margherita che catturano la mente e il corpo di Luciano e non gli lasciano alcuna autonomia e libertà di giudizio e di movimento.
Da subito una dominatrice e un dominato (e una storia che ancora continua…). Margherita tutto si aspettava, meno che di vedere un tale temerario che viaggiava con un sidecar tedesco. Anzi pensò che si trattasse di un tedesco “fuori ordinanza”, quanto all’uniforme. “Kamerade, ich habe einen Fehler auf dem Auto, hilf mir” (Camerata, ho un guasto alla macchina, aiutami).
Luciano pensò che si trattasse di una signora tedesca e replicò anche lui in lingua tedesca… ma il suo tedesco non era credibile, per cui Margherita…“Insomma mi dai una mano?” - gli disse in italiano, sorridendo e concentrando in quell’approccio tutte le risorse della sua capacità di seduzione.
Mentre Luciano si apprestava a mettere le mani sul motore, lo sguardo di Margherita letteralmente lo avvolgeva, sino a turbarlo completamente e se ogni tanto sollevava lo sguardo verso Margherita, gli sembrava ancora che quest’ultima s’impadronisse di lui.
Si trattava comunque di un banalissimo inconveniente dovuto a un contatto elettrico che si era interrotto, per cui le elementari conoscenze tecniche di Luciano furono sufficienti allo scopo.
Margherita notò che Luciano aveva in tasca una pistola, e si affrettò a dire che era una studentessa universitaria e stava tornando dalla sua famiglia. Per contro Luciano rimediò dicendo di essere un operaio impiegato dai tedeschi nell’organizzazione Todt, alla vicina stazione ferroviaria e che sarebbe tornato in sede passando dalla parte bassa del lago.
Margherita pensò: “Tu non me la racconti giusta…”. E subito dopo: “Però è veramente un bel ragazzo!”
Parlarono, ma senza approfondire nulla: ogni approfondimento o giudizio personale poteva essere un indizio di riconoscimento dell’uno da parte dell’altro.
Erano due sconosciuti che però cercavano ambedue un qualsiasi pretesto per avere qualche chance di rivedersi.
Margherita tuttavia rimaneva ben salda nel suo ruolo segreto e nelle motivazioni, per quanto conflitto poteva esserci nella sua psiche.
Ed era sicuramente la prima volta che si sentiva realmente sedotta dal fascino maschile, anche perché di là dai tratti fisici, Luciano conservava uno stimolo adolescenziale e una tenerezza che pescava molto bene nella sua latente ambiguità sessuale.
“Mi piacerebbe rivederti” - propose Margherita intrigante e seducente e aggiunse (non era più una proposta o un desiderio, ma quasi un ordine) che l’avrebbe aspettato il sabato successivo nella locanda del borgo, giù in basso, in riva al lago.
Luciano annuì positivamente: era sorpreso, estasiato, con il cuore in gola la vide salire in auto e partire. Anche Margherita non aveva aggiunto altro: il silenzio significava che tutto era deciso e non c’era niente da aggiungere.
E Luciano tornò in montagna fra i suoi compagni. L’appuntamento fissato fu con straordinaria puntualità rispettato da ambedue. Grande curiosità aveva suscitato nella locanda l’arrivo della giovane signora elegante e misteriosa che aveva parcheggiato la sua automobile lì di fronte al pizzicagnolo dai mille odori, mentre nel bar le pulsioni e i desideri avevano lo stesso respiro dei dialoghi intercalati da esclamazioni blasfeme e l’aroma inebriante del vino.
Arrivò Luciano, un personaggio che a quanto pareva non era del tutto sconosciuto ai presenti, che gli rivolsero un qualche cenno di saluto. Poi arrivò il segretario locale del fascio repubblicano, un fascista della prima ora, che aveva fatto qualcosa di buono per il paese, senza raccogliere grandi consensi o simpatie in nessun momento anche quando era segretario del PNF, più temuto e scansato che odiato. Quanto agli oppositori del fascismo e in questo momento ai partigiani, che più o meno conosceva e per i quali aveva olfatto come il cane per i tartufi, egli non se ne era mai occupato personalmente e direttamente, per non sporcarsi troppo le mani.
Anzi aveva sempre promosso la sua immagine istituzionale, di funzionario del partito, moderato, tollerante, pacificatore ed anche autorevole mediatore dei conflitti che talvolta nascevano tra la popolazione e i pochi tedeschi del genio ferrovieri presente nella vicina stazione.
Muovendosi in questo modo pensava di garantirsi uno spazio futuro possibile in una società postbellica di cui s’intravvedeva la non continuità con il fascismo, dato l’andamento della guerra.
Quando però Fabio C., “la barba repubblichina”, (aveva, infatti, una folta barba nera da cappuccino, nonostante i sessanta inoltrati) entrò nel bar, qualcuno si defilò, qualcuno lo ossequiò, altri ostentarono con lui una familiarità e un’amicizia posticcia, ma in tutti prevalse subito un grande silenzio.
Lui osservò in giro, guardò anche la coppia inconsueta, senza soffermarvisi di proposito, riflettendo poi su una tazza di caffè surrogato che l’oste gli aveva somministrato: cercava di ascoltare quello che si dicevano e in questo senso l’improvviso silenzio, con l’eccezione di qualche bisbiglio, gli era propizio, ma non riusciva a capire il senso del discorso salvo qualche parola.
Fabio poteva sapere chi fosse Margherita, perché l’aveva intravista in federazione conferire a lungo con il federale che l’aveva poi salutata in modo molto confidenziale, mentre l’altro non era del paese, ma vi capitava spesso, talvolta insieme a personaggi molto discutibili - ovviamente dal suo punto di vista.
E quindi, così com’era solito fare, non chiedeva, non indagava localmente, ma andava a riferire settimanalmente in federazione su tutto ciò che riteneva utile e interessante per la “causa”, cui aveva dedicato tutta la sua esistenza.

Inutile dire che il feeling iniziale fra i due ragazzi si trasformò quasi subito in un rapporto di amore completo e passionale e seguirono altri giorni di appuntamenti e momenti di grande emozione ed esplosione della loro esuberanza giovanile.
Un vecchio pescatore del borgo, che sta sotto la punta della collina, luogo del loro primo incontro, era solito accompagnare i due amanti Margherita e Luciano con la sua barca all’isola del lago, dove aveva per loro procurato un nido di amore in una casetta dalla soglia erbosa proprio sulla riva.
Sembravano una cosa sola, due frammenti di moneta che unendosi ricomponevano esattamente un’unità, sembrava che la guerra e le sue insidie non potessero in alcun modo toccarli.
Era inverno, un aereo in avaria va a schiantarsi là, dietro al castello che domina l’isola. Il vecchio smette di remare per guardare la colonna di fumo che va in alto verso il cielo e nello stesso tempo sembra oscurare la vista dell’isola stessa.
Nulla di quello che sta accadendo, sembra scuotere i due ragazzi che stanno completamente avvolti per il freddo e per il bisogno di una maggiore intimità sotto alcune coperte.
Tonio guarda la guerra e i due amanti: due realtà che sembrano assolutamente non appartenersi, lontane fra loro centinaia di anni luce, eppure sono drammaticamente così vicine e coinvolgenti.
La passeggiata, che parte dall’abitato dell’isola e in mezzo a tanta vegetazione dai mille profumi costeggia a est l’isola stessa, era la loro stanza dei ricordi e il teatro delle loro effusioni più dolci e malinconiche: sembravano quasi due bambini con tanta voglia di giocare, scherzare, recitare…
Ma la malvagità della guerra imprigionava la freschezza e l’esuberanza della magica età dei vent’anni; appartenevano, infatti, a una generazione alla quale è stata crudelmente rubata la gioventù e sono state sacrificate tutte le certezze e gli ideali con cui era cresciuta.
Il federale convocò Margherita per informarla che, se aveva conosciuto quel giovane, quella conoscenza poteva tornare utile alla causa repubblicana.
Quindi Barbiccia aveva riferito.
Non gli interessava conoscere le motivazioni che l’avevano spinta ad approfondire quella conoscenza, perché erano abbastanza evidenti dalla sua immediata reazione emotiva: la invitava, però, a controllare i propri sentimenti, rimanendo sul piano del sesso e a coltivare quel rapporto per ricavarne utili informazioni.
Gli risultava, infatti, che appartenesse quasi sicuramente a una delle bande partigiane che si muovevano nelle montagne e che adesso, era inverno, avevano grosse difficoltà logistiche e di movimento in gruppo e stavano quindi rintanate in qualche covo protetto dalle caratteristiche dei luoghi.
Quindi, come si suole dire, doveva unire l’utile al dilettevole assumendo l’incarico di prendere ogni informazione utile allo scopo.
Margherita avrebbe preferito che tutto ciò non fosse avvenuto: che la cosa non si fosse risaputa e che non le fosse stato affidato alcun incarico che adesso le procurava turbamento, angoscia e conflitto interiore.
Intimamente disprezzava quell’invadenza del capo nella sfera della sua intimità privata: “Unire l’utile al dilettevole”. Non era una libertina o di facili costumi: anzi viveva con Luciano questa esperienza assolutamente speciale con introspezione, turbamento, fantasia. Doveva svelare a se stessa, al di fuori del rapporto sessuale tecnicamente inteso, quali erano i confini reali della sua femminilità, non soltanto biologica.
Un giorno Luciano che non poteva sospettare l’inquietante situazione in cui si trovava Margherita e la sua vera identità di osservatrice e agente segreto della RSI (non era ancora stata fatta l’ulteriore scelta di servire lo Stato fascista in divisa come ausiliaria), cercò di scoprire quali fossero le idee politiche della ragazza. E più che riceverne risposta, ingenuamente e incautamente si lasciò andare a considerazioni e confessioni, che non sorpresero per niente Margherita che tuttavia non avrebbe mai voluto sentire, pretendendo per di più da lei una risposta che non poteva essere se non quella dettata dal suo ruolo e dall’incarico ricevuto, una risposta banale, evasiva, assolutamente falsa.
E così Margherita malvolentieri seppe che c’era un paesino di là da quella montagna e poi scendendo la valle e ancora risalendo la dove la montagna sembra brulla di alberi, ancora dietro sulla costa.
Quella costa della montagna appenninica era una zona ideale per l’insediamento di chi volesse nascondersi e riuscire a fuggire agevolmente. Riogreve, come il torrente che gli ha dato il nome, un nucleo di case abitate da boscaioli che funzionava da base logistica per l’attività dei partigiani che preferibilmente stavano rifugiati ancora più su, in baracche, capanne fatte di legno e grandi zolle di terra per i tetti e rifugi naturali. La zona intorno era poi densamente popolata da renitenti per la sua conformazione fisica, fatta di poderi isolati che, soprattutto in inverno, quando acqua e ghiaccio fanno delle strade sterrate vere paludi, creava notevoli problemi di comunicazione.
Si estendeva poi in una conca di dossi e di piccoli boschi le cui vie d’accesso erano facilmente controllabili. Le contrade, i fienili isolati, le capanne, le grotte e la vegetazione del bosco più fitta garantivano nascondigli sicuri. I prati alti, a nord, e i versanti boscosi della valle a est, costituivano delle vie di fuga ideali per far perdere in fretta le proprie tracce.
Più volte soldati tedeschi, disertori o fuggitivi, erano capitati a metà costa e la semplice generosa gente di montagna li aveva accompagnati sui sentieri che andavano verso nord.
Più volte la gente li aiutò per evitare che cadessero nelle mani dei partigiani. Era una vera “terra della libertà”, dove non erano le ideologie e le leggi scritte a imperare, ma il buon senso e la coscienza della gente comune.
La storia fra Margherita e Luciano procedeva inesorabilmente. Più il fronte si avvicinava e più spesso si vedevano nella zona del lago formazioni di aerei inglesi e americani, grossi quadrimotori chiamati “fortezze volanti”, che salivano verso nord per bombardare centri strategici.
Quel giorno, mentre i due amanti stavano appartati in un canneto in riva al lago, uno di questi aerei fu colpito dalle contraeree tedesche e non poté proseguire l’itinerario stabilito. Tornò indietro verso il lago e vi sganciò tutte le bombe: sembrava la fine del mondo e la prova generale della tragedia, sempre più incombente, del fronte in arrivo.
Margherita, fredda e glaciale in tante situazioni ed anche caratterialmente, riguardo a Luciano era terribilmente combattuta dentro di sé. Avrebbe voluto dirgli: “Scappa. Non sono quella che credi!” Non aveva paura della sua reazione, ma neppure il coraggio di affrontare le conseguenze di una sua disobbedienza a chi pianificava ogni momento della sua giornata e attività, non soltanto per paura di perdere la propria vita, ma anche perché non se la sentiva dopo una vita di stenti di rinunciare ai privilegi che quella posizione le offriva e che comunque presto sarebbero finiti.
Su quel lago tutto quello che facevano e si dicevano, si rifletteva in tanti specchi…
Il federale stringeva in modo ossessivo su Margherita fino a minacciarla, se avesse continuato, come si suole dire in Toscana, a “menare il can pe l’aia”. Margherita fece prevalere la fredda ragione al sentimento e rivelò il nome della località che faceva soltanto da base all’attività dei partigiani e non già l’esatta dislocazione che peraltro non conosceva.
E fu così che capitò a Riogreve un soldato tedesco a bordo di una camionetta carica di armi. Disse che voleva consegnarle ai partigiani e lui stesso aveva disertato e voleva arrendersi a loro. Non era la prima volta che disertori o sbandati si presentavano per un qualche motivo e avevano ottenuto l’aiuto della gente. Qualcuno aveva aiutato volentieri qualche tedesco.
Una volta una contadina aveva ammazzato un galletto. Arrivarono tre tedeschi e lo videro. Fecero segno di cuocerlo arrosto. La donna glielo cosse, se lo mangiarono e ringraziarono. Continuavano a dire: “Danke, mama” (Grazie, mamma!). L’anziana donna gliel’aveva dato volentieri il galletto. Quei tedeschi erano gentili. Uno le disse: “Domani noi torneremo qui ancora”. Tornò il giorno dopo con un sacco di tabacco, sale e biscotti.
Una volta, dopo che lui aveva tanto insistito, i montanari accompagnarono un soldato tedesco fino in fondo alla valle, indicandogli la strada per proseguire verso la città che voleva raggiungere oltre l’Appennino e non finiva mai di ringraziare i suoi accompagnatori.
Stavolta però era diverso: trattandosi di armi, furono avvertiti i partigiani, che uscirono allo scoperto; quindi nascoste le armi, decisero di sotterrare la camionetta, per paura che i tedeschi in rastrellamento la trovassero. Gli uomini del paese furono costretti a scavare
una buca nel prato di una villa abbandonata e a seppellirla. Le donne, con le scope, raddrizzarono l’erba che era stata schiacciata dalle ruote. Il giorno dopo i partigiani ordinarono di disseppellirla: uomini, giovani, ragazzi furono costretti ad aiutare, mentre loro guardavano. Poi i partigiani si travestirono da fascisti e partirono per la città dove andarono nelle botteghe a farsi dare farina, riso, conserva di pomodoro, perfino scope di
paglia. La farina era qualche quintale. La suddivisero e la nascosero un po’ per ogni casa e il resto in una baracca. Tornarono anche con 50.000 lire: che si spartirono e siccome in quel frangente erano in dieci, toccarono 5.000 lire a testa.
Il fatto più incredibile fu che il soldato tedesco che si era consegnato ai partigiani, e che era stato con loro per più di una settimana vedendo i loro nascondigli e le loro postazioni, riuscì a fuggire. Era stato mandato per spiarli.
È certo che di lì a poco giunse un rastrellamento, era la fine di aprile del 1944, e fu l’ultimo, quello che scacciò definitivamente i partigiani dalla zona. I tedeschi sapevano tutto, perfino dove i partigiani avevano nascosto la farina. Vennero a prenderla e se la portarono via. Anche i fascisti, come già i partigiani pretendevano dalla povera gente del villaggio, si fecero dare da mangiare e, se trovarono qualcosa, la rubarono.
Una famiglia aveva cinque o sei pollastrelle. I fascisti arrivarono, spararono e se li portarono via. Furono perquisiti tutte le case e i poderi, interrogati uomini e donne. E intanto alcune donne, che avevano sentito degli spari e credevano che i loro uomini fossero stati colpiti, erano in casa a piangere e a recitare il rosario.
Il grosso dei militi, infatti, circa 200 fra GNR, carabinieri, un plotone di polizia e soldati tedeschi, stava rastrellando in una superficie molto vasta e avevano sparato, credendo di aver avvistato alcuni partigiani nascosti in una macchia di cespugli.
Ma niente di fatto: di partigiani, renitenti o altro neppure l’ombra. Nel frattempo combattenti della stessa brigata assalivano un convoglio di dodici camion nazifascisti, bloccandoli ad un passo appenninico e circondandoli, facendo molti prigionieri e impossessandosi di viveri e armi modernissime.
Lo smacco era pesante: il federale a questo punto ordinò a Margherita di consegnargli il partigiano del cuore; altrimenti l’avrebbe consegnata alle SS che l’avrebbero fucilata o almeno deportata. Non le restò, con il cuore in gola, che aderire alla richiesta: fissò con Luciano l’ultimo appuntamento per il 30 aprile 1944 nella stessa terrazza sul lago, dove si erano incontrati per la prima volta.
L’automobile in attesa era quella, ma Margherita non c’era: quando Luciano se ne avvide, era troppo tardi, veniva arrestato e tradotto al carcere della città toscana.
Il tradimento di Margherita era evidente ma Luciano poteva anche pensare che fosse stata costretta a farlo e, convinto dei suoi buoni sentimenti, non cessava di amarla.
Resistette e sopravvisse a torture fisiche e morali, rimase fedele al giuramento, non tradì i compagni e non rivelò nomi, luoghi e numeri.
Nell’anticamera della morte volle scrivere a Margherita una lettera tragica e appassionata, documento drammatico e sublime di un Amore con la lettera maiuscola che non si ferma di fronte a qualsiasi ostacolo, senza limiti e condizioni, puro, esclusivo, totalizzante.
Chiese ai suoi aguzzini che fosse recapitata alla ragazza.
Chiese l’assistenza spirituale di un sacerdote e gli fu assegnato quel cappellano toscano che aveva conosciuto durante il servizio militare a Padova, quando era sottotenente di complemento della Regia aeronautica militare fino all’8 settembre 1943.
Don Umberto chiese a Luciano, ormai visibilmente depresso e irriconoscibile, un atto di fede in Dio e nei suoi confronti: conosceva un conte podestà repubblichino, che aveva aiutato molti ebrei e salvato anche qualche partigiano, attraverso documenti falsi di dimissione o di trasferimento dal carcere firmati dal comandante tedesco della piazza, che venivano forniti da un ufficiale tedesco in procinto di disertare, ma che voleva in cambio metalli preziosi o denaro. Il conte avrebbe provveduto in tal senso.
Appena il giorno seguente, due SS impeccabili fingevano un italiano stentato, producendo al direttore del carcere un documento d’immediato trasferimento ad altro carcere del detenuto in oggetto e Luciano poteva, salito in auto e discretamente lontano dal carcere, riabbracciare i suoi compagni che lo avevano recuperato.

Così come in un flashback, i ricordi e le immagini di quel tragico passato scorrevano nella mente di Margherita, mentre sola e dilaniata nei propri sentimenti, usciva dal campo di concentramento di Casellina il 1° dicembre 1945. Mentre si avviava verso la sua casa fiorentina o quello che di essa rimaneva, con il passaggio dei bombardamenti e delle vicende belliche, frugava un po’ nello zaino che non aveva mai abbandonato.
Nella tasca interna era ancora salva, gelosamente custodita la lettera di Luciano.
Margherita aveva saputo della sua fuga, prima di partire per il Nord nell’estate del 1944 per seguire i fascisti in fuga prima dell’arrivo delle truppe alleate nella città toscana.
Scrive l'autore G.Bronzi (già Specchi sul lago 1944)

“1° dicembre 1943: nell’Italia centrale, su una splendida terrazza che si affaccia sul lago, si incontrano Margherita e Luciano, “una giovane bellissima e conturbante, spietata spia nazifascista e un partigiano ignaro, appassionato e coraggioso. Ne nasce un rapporto ambiguo e tormentato, amore e odio, amore e morte”.

Così un giornale del 1945, che visse per breve tempo e fu una caduca creatura del servizio di propaganda del Comitato di liberazione nazionale, pochi fogli ingialliti e irrimediabilmente danneggiati in alcune parti dall’alluvione di Firenze del 1966 che devastò anche la Biblioteca nazionale di Firenze, ne parlava con echi di vendetta e aperta condanna, per finire che bisognava stanare fino all’ultimo fascista e collaborazionista e fare giustizia rapida e sommaria, altrimenti non sarebbe stato possibile dare alla luce la nuova Italia democratica e rivoluzionaria.
La lettura dell’articolo mi spinse ad approfondire e a fare ricerche. Firenze, Reggio Emilia, Genova, documenti, lettere, parenti, amici, resistenze, e alla fine in un ospizio (era il 2000) una signora di settantasette anni, ancora bella a suo modo, capelli ancora neri, uno sguardo fiero: è lei l’aquila altera che sto cercando. Mi rendo subito conto di avere di fronte a me un personaggio straordinario. Margherita (questo non è il suo vero nome) è disposta a raccontare tutta la sua storia, a condizione che io ne faccia un romanzo, salvando la sua privacy e quella delle persone che entrarono nella sua vita.
E’ una donna culturalmente preparata ed ha una personalità complessa: non si può semplificare e ridurre la sua vicenda alla sentenza manichea espressa da quel quotidiano. Mi chiede di non esprimere giudizi e di attenermi ai fatti sia pure in forma romanzata e quindi “improbabile” per quello che riguarda i luoghi e la cornice dei fatti stessi.
La sua storia con il partigiano Luciano (questo è il nome che gli ho dato io) è soltanto un flashback in un susseguirsi di avvenimenti tragici e significativi che vanno dal 25 aprile 1945 fino all’1° dicembre dello stesso anno e che danno anche a quella vicenda la giusta luce interpretativa.
Mi rendo conto così che dovrò scrivere non soltanto un romanzo storico, ma anche psicologico, perché quest’aspetto determina la complessità, la profondità e il fascino del personaggio.
Compare così anche il personaggio di Elvira, l’amica del cuore, sua camerata, ausiliaria della RSI come lei, ed entrambe addette ai servizi speciali.
Il partigiano Luciano chiude così il triangolo.
Tutti i dati e le notizie raccolte mi conducono poi a lui: a differenza della sempre single Margherita, Luciano è un nonno con tanti nipoti e tre figli che vive ormai da pensionato sulle colline toscane. Scampato alla morte con l’evasione dal carcere, dopo la delazione di Margherita, che non cessò mai di amare neppure dopo il tradimento scrivendole una lettera tragica e appassionata, documento drammatico e sublime di un Amore con la lettera maiuscola che non si ferma di fronte a qualsiasi
ostacolo, senza limiti e condizioni, puro, esclusivo, totalizzante, egli è il vero semplice, ingenuo, istintivo, puro eroe della Resistenza.
E mentre lo ascolto raccontare la sua versione dei fatti, mi accorgo che ormai ottantenne non ha perso quei tratti adolescenziali che uniti a un aspetto fisico eccellente tanto colpirono l’incerta e ambigua sessualità di Margherita.
Se per Margherita Luciano appartiene a un flashback sia pure ricorrente, per Luciano è diverso: nonostante tutto, essa continua a essere la padrona della sua mente e del suo cuore e non li abbandona un attimo da quel giorno della primavera del 1944 quando la vide per l’ultima volta, fra tanti “specchi”.
Mentre egli racconta, la moglie di Luciano lo ascolta e mi ascolta. Conosce la storia di Margherita da sempre, non è stata mai in un qualche modo gelosa di questo fantasma (forse una realtà - pensava) che da sempre occupa la mente del marito: per lei è, o meglio è stata, una rivale che avrebbe sempre voluto conoscere; è molto più giovane del marito, ex imprenditore, sempre adorato dalle donne, segretarie, amiche; per lei Luciano è stato una conquista, nonostante i venti anni di differenza, ma la conquista di un territorio sempre da difendere ed ha sempre lealmente accettato, senza tragedie, di contrastare e ridurre in qualche modo gli spazi talvolta reali, e non sempre virtuali, occupati dalle sue rivali.
Perciò è pronta a conoscere anche Margherita: sembra fare sul serio anche questa volta, ma io capisco che è ormai soltanto curiosità e pensa di gratificare il suo Luciano facendosi vedere questa volta davvero gelosa. E lui si compiace un po’ gallo cedrone, come tutti i maschi... Plaudo all’intelligenza di questa donna: si chiama Anna. Mi sovviene Dante: “Donne ch’avete intelletto d’amore…”.
Luciano m’invita a pranzo, conosco una figlia che è venuta a far loro visita e che adora il padre, che per lei è un eroe, un uomo eccezionale, un fuoriclasse per usare un linguaggio sportivo, un vincente sempre. Teme che io ne faccia una vittima, ne riduca la statura che emerge soprattutto, secondo lei, da quello che è poi riuscito a realizzare, per i traguardi conseguiti come imprenditore, e che l’hanno vista fin da piccola mascotte presente a tutte le cerimonie e occasioni pubbliche che coinvolgevano il padre.
Questo”amarcord”a lei piace non più di tanto e vede in questo gioco per il quale non simpatizza, una complicità cerebrale e quasi “perversa” della mamma. Mi accorgo che è estremamente protettiva nei confronti del padre del quale dice di essere sempre stata fin da piccola innamorata: è anche lei rivale, come normalmente accade fra madre e figlia.
Ma la storia mette radici così profonde nella memoria individuale e collettiva che in occasione del convegno Assomeet svoltosi a Marotta di Mondolfo (provincia di Pesaro) in una caldissima giornata del luglio 2001, presso la sala Arcobaleno gentilmente concessa dal comune di Mondolfo, alla presenza di oltre 70 over settanta e over ottanta provenienti da ex fronti avversi, Margherita e Luciano si sono di nuovo incontrati: lui sembrava ancora il giovanotto appassionato di un tempo, lei solo apparentemente un po’ fredda e distaccata, anche se con modi gentili e contenuti in uno stile del tutto suo.
Ma mentre lo ascoltava a testa alta guardandolo con quegli occhioni aperti e non dolcissimi che lo penetravano irresistibilmente, da quegli occhioni a Margherita sono scese lacrime non consuete e con grande sorpresa di Luciano e di tutti, me compreso, ha tirato fuori quella lettera che le fece pervenire tramite i suoi aguzzini dal carcere e che Margherita ha sempre conservato gelosamente e si è sciolta subito dopo in un pianto più
deciso, seguito dalle parole: “Devi sapere che, contro ogni realtà contraria o apparenza, io ti ho sempre amato fin dal primo momento. Quel giorno di aprile sul lago avrei voluto dirti: “Scappa. Non sono quella che credi”. Non avevo paura della tua reazione, ma non ebbi il coraggio di affrontare le conseguenze di una mia disobbedienza a chi pianificava ogni momento della mia giornata e attività, non soltanto per paura di perdere la mia vita, ma anche perché non me la sentivo dopo una vita di stenti di rinunciare ai privilegi che quella posizione mi offriva e che presto sarebbero comunque finiti. Su quel lago tutto quello che facevamo e ci dicevamo, si rifletteva in tanti specchi.
“Con il ghiaccio nel cuore, pago le mie debolezze”.
Luciano le ricordò di averla ancora cercata con la massima discrezione e ritrovata, durante l’ultima detenzione a Casellina:
“Venni a farti visita, ma non mi fu consentito di incontrarti: ti lasciai dei regali”.
“Fui informata e ricevetti i tuoi regali: pensai a te, avevo i brividi”.
Una buona cena in riva al mare al ristorante California di Marotta, lungo e anch’esso molto “gratificante”, chiuse la giornata mentre sul mare erano esplosi per una festa fuochi d’artificio e tutti guardavamo, loro guardavano e si guardavano, mentre la moglie di Luciano divertita e a suo modo soddisfatta, mi sorrideva curiosamente.
Poi si avvicinò a me e mi disse sommessamente e maliziosamente ironica in un momento che loro, i due, non ci ascoltavano: “Almeno adesso il fantasma è stato allontanato un po’ dalla realtà, gli anni non si nascondono”.
Le replicai con un sorriso come cenno di aver compreso, ma io vivevo in un’atmosfera particolare quasi da sacerdote del tempio, o da mago ruffiano amante e ricercatore di storie estreme e non troppo convenzionali…
Una lettera recente di Margherita
in occasione della pubblicazione di SPECCHI SUL LAGO 1944 (1^ edizione 2009)
Gentile professor Bronzi,
ho letto le bozze del romanzo che mi ha inviato e
devo dire che ha disegnato abbastanza bene il mio
personaggio. Quindi mi congratulo con Lei. Riguardo al
capitolo terzo, quando si parla della fucilazione del
gruppo di ausiliarie e soldati, riporti esattamente il
racconto dei fatti della comandante del Servizio ausiliario
femminile Piera Gatteschi Fondelli, così come vengono
ricordati nelle sue Memorie, anche se nella trasposizione
spazio-temporale hanno date e luoghi diversi, così come le
ho chiesto di fare.
Noi ne fummo testimoni.
Quanto alla foto della modella che lei ha scelto
per la copertina, devo dire che dice molte cose di me e mi
piace anche quel look moderno… che mi fa sentire al
passo con i tempi!?!
Nel dopoguerra, appena le circostanze me lo
consentirono, ripresi gli studi universitari di lettere e mi
laureai con una tesi sul contributo delle donne impegnate
nella guerra civile 1943-45, nell’uno e nell’altro fronte.
Eravamo a cavallo degli anni cinquanta e sessanta e non
era facile parlare di queste cose, con tutti; c’era
soprattutto il rischio di non essere capite.
Io facevo outing (si direbbe oggi) con estrema
disinvoltura, così come anche Lei ha fatto nel suo libricino
Il cuore delle donne (bravissimo! uno stile perfetto in quel
“frammento di cuore e di memoria”), ma gli altri, le altre
facevano soltanto politica e non erano autentici e sinceri,
neppure con se stessi.
Il tema della mia riflessione era e rimase per
molto tempo questa: le donne, le grandi dimenticate della
storia, fasciste o partigiane, collaboratrici degli uni o
degli altri, rimasero sconfitte, le eterne perdenti…e
tornarono ai fornelli.
Inoltre si cercò di sminuire, ridurre meriti e
demeriti. Lei sa che io non nego mie precise responsabilità
e colpe e non voglio attenuanti o sconti o comprensioni
perché donna.
Quasi che fosse non soltanto improbabile, ma
quasi impossibile che una donna potesse essere
veramente e responsabilmente una spia.
E a dimostrazione di ciò alcuni curiosi paradossi
che i pregiudizi portavano con sé: un avvocato che mi
difese nell’indagine giudiziaria legata alle sanzioni per i
reati fascisti (che scattò al mio rientro a casa, poiché la
trovai occupata da sfollati i quali cercavano ogni pretesto
per non restituirmela), mi raccontò che aveva esaminato i
fascicoli giudiziari di novanta donne romane, accusate,
subito dopo la liberazione, di collaborazionismo.
Si trattava solo d’istruttorie perché l’amnistia,
firmata il 22 giugno 1946 dal guardasigilli Palmiro
Togliatti, impedì che anche le persone rinviate a giudizio
fossero sottoposte a processo ed eventualmente
condannate.
Cosa ne era emerso? Il giudizio quasi unanime di
carabinieri, avvocati e magistrati era sostanzialmente che
le donne hanno capacità troppo limitate per fare
attivamente e consapevolmente le spie.
Alcune donne lo erano state veramente, mentre
altre erano innocenti. Ma l’amnistia impedì che si
conoscesse la verità e tutte vennero coinvolte nello stesso
giudizio popolare, a tal punto che a volte la gente tentò di
far giustizia sommaria da sé, ma, per fortuna, a Roma, i
Comitati di liberazione di quartiere si opposero ai
linciaggi.
Insomma i nuovi magistrati “democratici” e le
forze dell’ordine affermarono, che, almeno per le donne,
era cambiato poco: sarebbero state ancora cittadine di
serie B, perenni minorenni incapaci perfino di essere
davvero cattive, mosse solo dal desiderio di essere moglie,
mamma e donna di casa.
Insomma niente era cambiato rispetto al
fascismo, anzi era pregnante un processo involutivo, se si
pensa alla novità di noi, in quanto servizio ausiliario
femminile, donne-soldato.
Come insegnante di liceo cercai più volte di
aprire una riflessione sul tema e su altri argomenti
correlati con i miei studenti, ma anche gli anni 70 non
erano ancora maturi. La storia del fascismo era ancora un
tabu! La vera emancipazione femminile una chimera.
Con i migliori auguri
“Margherita”

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venerdì 29 aprile 2011

L'onore e la passione (IV parte)

Capitolo 5°
Elsa e Sandra di nuovo insieme, ma rivali per Damiano

Elsa corse incontro a Damiano e lo abbracciò con passione: negli occhi di Damiano c’erano sorpresa e tenerezza e un atteggiamento riflessivo, riservato che ad Elsa parve soltanto distacco.
Erano due persone molto diverse, per età (nel 1945 Elsa aveva 19 anni, mentre Damiano ne aveva già 37), per progetti diversi destinati tuttavia a fondersi in un qualche modo..). Questa tensione del diverso alimentava l’innamoramento di Elsa che cercava comunque il senso del proprio destino.
Caduto l’ideale politico che le dava un senso di appartenenza, cercava in Damiano quella diversità che la attraeva perché le apriva nuovi orizzonti di vita, ma nello stesso tempo si risvegliavano in questa congiunzione fisica le ansie e i meccanismi di difesa.
Si congedò dalle suore senza chiedere a Damiano dove e perché andare: lui sapeva e non era altrettanto importante per lei sapere cosa bisognava fare, ma l’essenziale era farlo con lui. La superiora lanciò un ultimo saluto: “Torna a farci visita, Damiano!”. Anzi:”Tornate…”Si corresse.
Non mancò in Damiano un muto disappunto: egli infatti era tornato per mantenere una promessa fatta e per dare alla ragazza una possibilità, di vivere e di riscattarsi. Null’altro.

“Verrai con me a Parma, dove stiamo organizzando un centro di assistenza agli sfollati e di smistamento di persone provenienti dal Nord Italia ed Europa. Insieme a me hai un lasciapassare senza condizioni come mia segretaria e collaboratrice. Là avrai modo di conoscere tanta gente con cui potrai confrontarti e riflettere”.
Fu un viaggio lungo e pieno di problemi e di insidie: non c’era coordinamento fra le tante armate o divisioni di partigiani (bianchi cattolici, azzurri di Giustizia e Libertà, verdi azionisti, rossi garibaldini) per cui ogni posto di blocco (ed erano numerosissimi) diventava un esame e c’era un potenziale rischio personale, alimentati dal sospetto reciproco.
Si parlava infatti di improvvisati nuclei partigiani senza storia e sconosciuti fino al giorno precedente la liberazione, che in realtà erano fascisti irriducibili travestiti da partigiani: in fondo bastava impugnare un arma e legarsi un fazzoletto rosso al collo ( il rosso spaventava di più) e senza scrupoli tentare proditoriamente un’ultima vendetta.

Giunsero alla fine nei pressi di una stazione ferroviaria alla periferia della città, dove era stato allestito un campo interalleato con una sezione organizzativa dei partigiani bianchi: tutti conoscevano Damiano e lo salutavano con deferenza. “Damiano, dove hai conosciuto quella maschietta ?”(alludendo ai capelli che erano ricresciuti ma non abbastanza).
Lui tirava diritto come era suo solito fare, discreto, serio e serioso, responsabile e disciplinato, di sani principi morali e religiosi: “Vieni Elsa, andiamo nel mio ufficio”. Si trattava di una baracca di legno e l’ufficio era al piano terra in fondo ad un lungo corridoio. Camminavano mantenendo lo stesso passo ed Elsa era orgogliosa di stare al fianco di un così prestigioso personaggio.
Ma nel momento in cui stavano entrando nella stanza, improvvisamente la porta si aprì e ne uscì una bella ragazza bionda con delle carte in mano, alla quale Damiano presentò la sua protetta: “Sandra, questa è Elsa, è sfollata ed ha bisogno di una sistemazione nel campo”. “Elsa, questa è Sandra la mia alter ego!”.

Le due ex amiche ed ex compagne di scuola si riconobbero, ma mantennero sul momento ciascuna delle due il segreto, anche se l’emozione e la sorpresa tolsero loro il respiro, mentre gli occhi rimanevano ben spalancati.

Fu Sandra a chiedere per prima a Damiano quale fossero le circostanze che l’avevano fatti incontrare e lo fece con una certa arroganza tanto che Damiano le rispose abbastanza freddamente che aveva già dato la risposta necessaria. Era una ragazza sfollata in difficoltà e bisognosa di aiuto. Non c’era altro di importante che potesse interessarla.

Era evidentissimo che Sandra teneva molto a Damiano e vedendolo determinato, ebbe un forte scatto di gelosia. “Forse tu non sai che è una fascista repubblichina. Eravamo a scuola insieme e nel 1943 lei cocciuta volle partire per il Nord insieme ai fascisti toscani fuorusciti”.
“Lo so bene” – rispose Damiano- “E tu terrai il segreto: è un ordine oltre che un mio desiderio che tu non contrasterai assolutamente”. La guardò intensamente e…”So che tu non lo farai!”. E poi rivolto ad Elsa: “Vi conoscevate?”. “Sì” rispose Elsa e non aggiunse altro.

Capitolo 6°
Margherita, Elvira: la prigionia

La carovana partita da Bologna raggiunse Pistoia e quindi proseguì per Lucca e Pisa. Poi oltrepassata Pisa, in vista del mare, raggiunsero il campo di concentramento di Coltano, circondato dai pini marittimi, dove, però si rifiutarono di accoglierle perché già sovraccarichi di prigionieri. E qui, a Coltano, a malincuore le ragazze dettero l’addio ai camerati maschi che le avevano accompagnate nel viaggio e la colonna tornò indietro verso Firenze.
Avvicinandosi al capoluogo toscano, Margherita vedeva in lontananza la città, dove aveva abitato e dove avrebbe voluto ancora vivere per sempre: il richiamo della Sicilia aveva un piccolo spazio nel suo cuore, unicamente perché non conosceva la sorte del padre, andato volontario in Russia e che forse poteva tornare.
Elvira era già molto addolorata per essere arrivata a pochi chilometri dal suo paese, che aveva anche intravisto in lontananza, quando era vicino a Bologna, ma, essendo ormai in condizioni di prigionia, non aveva potuto far niente per andare a riabbracciare i genitori di cui non poteva sapere più nulla.
Il viaggio terminò verso le ore venti a Scandicci, alla caserma dei “Lupi di Toscana” trasformata nel campo di concentramento denominato U. S. P. W. E. 334. Il campo di Scandicci era composto da diversi lager e reticolati e sulle torrette di guardia incombevano le mitragliatrici, ma le prigioniere poterono sistemarsi in baracche di legno o di metallo. Là dentro si parlava un mucchio di lingue, vi erano donne di tutte le nazionalità e di tutti i partiti. Le italiane erano circa 300, tra ausiliarie e civili, ritenute in un qualche modo coinvolte con il regime, oltre alle tedesche che erano numerose, forse il doppio.
Ma nel campo erano recluse anche alcune partigiane (“che avevano mai combinato?”), che ricevevano un trattamento leggermente migliore rispetto alle fasciste. Queste ultime, tuttavia, avendo pagato non con la vita, ma con il campo di concentramento, le conseguenze della disfatta, potevano sicuramente considerarsi fortunate rispetto a tante altre che, fuori, erano state uccise dai partigiani.
Il problema fondamentale era la scarsità del cibo e per qualsiasi cosa dovevano fare la coda cinque o sei volte il giorno, si dormiva su “castelli” di legno a tre piani, si mangiava la minestra con lo zucchero e si beveva il caffelatte amaro, ma non mancavano talvolta dei bei tocchi di pane bianco, anche se normalmente le razioni di pane erano sempre ridotte ai minimi termini. Essere prigioniere dietro il filo spinato era stata all’inizio un’esperienza del tutto nuova e spesso angosciosa e umiliante per le ragazze : poi la vita da “prisoner of war” alla fine era divenuta abituale… e presentava qualche aspetto interessante, che forse da vecchie avrebbero ricordato con quella nostalgia tipica che è una vernice del tempo che trasfigura i ricordi.
Giorno dopo giorno, gli americani si mostravano individualmente sempre più generosi con loro, mantenendole a scatolette e a sigarette: quest’ultime talvolta costituivano una preziosa merce di scambio con i viveri. Erano in tante e non mancavano i pettegolezzi, le solenni bisticciate e i puntuali rimproveri dei vigilanti in ogni occasione, se non qualche punizione, anche molto severa.
Domenica 24 giugno 1945 fu una giornata davvero sensazionale: Elvira festeggiò il suo compleanno dietro i reticolati, ma con tanta allegria, ballo e orchestrina nella grande piazza. Quel giorno ci fu anche una distribuzione di arance e di frittelle e la sera un grande spettacolo di varietà offerto dalle camerate tedesche.
Nel pomeriggio Elvira volle anche prendere il sole, come facevano le altre, in costume semi adamitico e lo fece in modo che qualcuno si accorgesse di lei, anzi più di uno e, la sera, alle sette, durante la Messa al campo, celebrata da un cappellano militare che aveva fatto tutte le campagne di guerra dal 1940 fino all’adesione alla RSI, fu cantata la “preghiera del legionario” con grande commozione generale.
Erano incominciati gli interrogatori delle cosiddette “militari” e Margherita temeva che fossero stati acquisiti dati negativi nei suoi confronti, anche se la cosa era molto improbabile.
Il prossimo turno è…
L’interrogatorio fu semplicissimo e sbrigativo: tutto bene. E così fu anche per Elvira.
“E pensare che - commentarono fra loro – ne abbiamo fatte!”.
“Ma poi questi americani non sono tanto malvagi” - aggiunse Elvira - “e alcuni sono veramente simpatici”. Il capitano statunitense, infatti, non aveva occhi che per lei e la cosa per Elvira era normalissima, perché tutti s’innamoravano di lei e, come si suole dire, “ci provavano”. Ma maliziosamente si era accorta (e da un lato la cosa la imbarazzava, dall’altro la gratificava) che il feeling con quell’ufficiale infastidiva un po’ Margherita e allora Elvira ci provava gusto a giocare un po’ con i suoi turbamenti.
Nel pomeriggio del 27 luglio, ci fu un duro scontro tra le fasciste e le partigiane risoltosi senza spargimento di sangue: “casus belli” una bandiera rossa che una partigiana aveva cucito ed esibiva in modo provocatorio. Ne era seguito uno scontro fisico molto violento in una camerata e un assedio in piena regola alla partigiana barricata al terzo piano di un letto a castello, che fu liberata dall’intervento dei sorveglianti. Come punizione fu sospeso a tutte il cibo per tre giorni. Riuscirono a “sopravvivere” solo perché ognuna delle camerate tedesche, che dividevano il lager con loro nell’altra ala, rinunciò a metà della propria razione per tutti e tre i giorni.
Restarono anche consegnate nelle camerate per lo stesso periodo, ma poiché un gruppo si mise a cantare, allora le fecero uscire e le tennero circa due ore in piedi sull’attenti sotto il sole di luglio perché volevano vedere se quelle “fortezze di Mussolini” fossero state in grado di resistere. Resistettero, ma fu dura.
Era opinione di molte che i soldati statunitensi non perdonavano loro il fatto di non riuscire a piegarle, togliendo loro la dignità. Insomma ancora una questione di onore.
Pensavano appunto che fosse intollerabile per loro che un pugno di donne non si piegasse e non chiedesse pietà, anzi riaffermasse la convinzione della scelta fatta anche dinanzi alla minaccia di deportazione nei campi di cotone africani.
Le volevano vedere piangenti e imploranti, ma questa soddisfazione non l’avrebbero mai avuta. Ecco perché – così pensavano - erano sottoposte da parte di alcuni ufficiali e sottufficiali alleati a una tortura morale gratuita, che consisteva nel non perdere occasione per offendere la loro italianità.
Spesso la mattina, all’adunata che precedeva e seguiva la “conta”, dalla bocca del sottufficiale sorvegliante uscivano insulti contro le donne italiane, che, secondo lui, erano tutte puttane perché andavano a letto perfino con i negri. Purtroppo poi col tempo loro stesse si sarebbero accorte che in parte aveva ragione.

Una volta non si limitò a offendere le donne italiane come il solito, ma accusò i soldati italiani di vigliaccheria e di essere più pronti a scappare che a combattere. Quel giudizio per quanto superficiale e indiscriminato era tipico di molti americani e coinvolgeva tutti gli italiani a prescindere dalla scelta che avevano fatto.
Ma siccome per le prigioniere i soldati italiani erano per eccellenza quelli della RSI, una s’incaricò di rispondere che quelli che chiamavano “vigliacchi” avevano tenuto inchiodato un esercito cento volte superiore per mesi e mesi combattendo in pratica a mani nude contro i carri armati. Tale intervento caricò emotivamente tutte le altre e l’offesa sembrò tanto intollerabile che si avventarono contro di lui... Scoppiò un putiferio: il sergente dette ordine alle torrette di guardia di scappucciare le mitragliatrici, chiamò gli MP, e solo allora tornò la calma. Sei o sette prigioniere furono mandate in camera di punizione e tutte le altre a mezza razione per cinque giorni.
Elvira aveva scritto a casa e attendeva con ansia e speranzosa una risposta. E fu Margherita a trattenerla dalla protesta, quando un giorno, alla solita adunata, il sergente disse che era arrivato per loro un sacco pieno di posta, ma siccome si erano comportate male, lo aveva bruciato.
Era venuto a far visita alle partigiane recluse un cappellano militare che aveva fatto parte di una brigata partigiana e che portava un fazzoletto bianco al collo. Maddalena, ausiliaria di Alessandria, era una vera pasionaria del Duce e spesso, sfinita e dolorante nel fisico e nell’anima per le precarie condizioni di salute, la fame, la totale ignoranza sulla sorte della sua famiglia, era in uno stato di confusione onirica: vedeva come imminente una riscossa dell’universo fascista, colonne in marcia, soluzione finale con armi speciali, ecc., ecc.
Quando il cappellano partigiano ebbe la “faccia tosta” di dire che le fasciste dovevano ringraziare Iddio di poter scontare, con le sofferenze e le privazioni del lager, il male che avevano commesso e i peccati di cui si erano macchiate (“perché, in definitiva, il male se lo erano meritato”), tutte rimasero ammutolite, finché cominciò a levarsi un mormorio alquanto minaccioso.
Maddalena non si trattenne dall’inveire contro il prete, “cattocomunista, sionista, traditore della patria” e così via ma per evitare l’intervento dei sorveglianti, fu frenata e ricondotta alla calma da Margherita che, peraltro, spiegò all’interlocutore la vera condizione della ragazza. Margherita s’intrattenne a parlare con lui in modo molto formale e diplomatico e si accorse che quel prete “un po’ sovversivo” continuava a guardarla finché le chiese se mai lei avesse operato a (…).
Margherita senza indugi negò risolutamente e lo salutò allontanandosi in fretta da lui. Ma il prete aveva ragione e ne aveva tanta che Margherita, sempre fredda e padrona dei propri riflessi, fu percorsa da un tremore intenso, che diceva tutto sulla paura di essere stata riconosciuta: quella notte di Natale del 1943, sulle alture dell’Appennino tosco-romagnolo, in quel paesino semidiroccato a caccia di ebrei insieme alle SS tedesche, cui faceva da interprete, avevano bussato anche a quella canonica e avevano perquisito tutto, non avevano trovato quello che cercavano, ma certe stampe clandestine che Margherita comunque aveva tradotto, molto liberamente, al tenente tedesco, per cui fortunatamente non ci furono conseguenze.
Elvira aveva poi recuperato una grande voglia di vivere, di cantare e di fare confusione e aveva fatto amicizia con le “balilline” (così chiamate perché giovanissime, talvolta avevano meno di sedici anni) e le “tripoline” (che erano le figlie dei coloni italiani in Libia). Nascevano anche dei flirts con i ragazzi del lager accanto a quello delle ragazze e le guardie le sorprendevano mentre lanciavano dei bigliettini oltre il reticolato.
Vi era anche una grande rimessa, dove lavoravano prigionieri a riparare macchine. C’era di bello che s’intrecciavano idilli e di brutto che, fioccavano anche nuove punizioni...
E così rischiarono tutte, per punizione, di perdere l’occasione delle frittelle in abbondanza elargite in occasione dell’“indipendence day” (4 luglio).
Margherita invece familiarizzava molto con le tedesche e particolarmente con Gertrude, un’intellettuale teorica della razza e intima amica di Goebbels. Parlavano di storia, di letteratura ariana, di costume e di ruolo femminile. Poi fu annunciato alle tedesche il loro rimpatrio. E molte italiane ne furono contente, anche perché non le potevano soffrire.
Gertrude non era tuttavia molto contenta di tornare in patria, perché avrebbe visto lo sfacelo di una nazione distrutta, un popolo ridotto in schiavitù, forse per sempre, e molto probabilmente non avrebbe trovato più né la casa né la famiglia (genitori e fratelli).
Partì come le altre in divisa, con i bei pantaloni (che tanto Margherita invidiava) e gli zaini carichi fino all’inverosimile...
Ambedue le amazzoni giunoniche (Margherita e Gertrude) non avrebbero mai dimenticato le affinità culturali, spirituali e caratteriali che le avevano legate durante la prigionia e mentre il gruppo partiva, i commoventi ripetuti addii... o più speranzosi “auf
wiedersehen”.
Alle finestre dell’ospedale, si vedevano invece feriti italiani e tedeschi: uno suonava l’armonica a bocca, un altro cantava con una bella voce da tenore...
Per loro le ragazze cantavano la sera canzoni “patriottiche”, e scambiavano qualche dolce con qualche pacchetto di tabacco da farglielo arrivare tramite il cappellano che di
tanto in tanto faceva loro visita. Quando fu loro fornita una radio che chiedevano da lungo tempo, ascoltando Radio Firenze o altre stazioni dove riuscivano a sintonizzarsi, si accorsero da notizie di attualità che i tempi erano duri per tutti, anche fuori, anche per quelli che avevano tanto atteso i “liberatori”.
Ma come se la cavavano adesso fuori le camerate che si erano salvate dalla prigionia ed erano sopravvissute ai giorni più tremendi? Questo era il dilemma: le prigioniere desideravano tutte di uscire, ma cosa le aspettava, una volta uscite, tornando al paese, al quartiere, sia pure riscaldate dagli affetti familiari? Forse erano addirittura più sicure nella prigionia.
Ma non sapevano che anche i tempi mutavano in fretta…
In compenso la musica che era trasmessa, in prevalenza americana, era un genere che non dispiaceva, anche se c’era un po’ di pudore e ritrosia ad ammetterlo.
Nessuna notizia da casa per Elvira, e così per molte altre. Eppure Elvira continuava a scrivere alla mamma su quelle strane lettere che passavano, di una carta speciale.
Vedevano spesso, la sera, passare davanti alle finestre automezzi americani, con sopra giovani ragazze fiorentine, che ridevano sguaiatamente ed erano molto truccate.
Da dietro i reticolati, i prigionieri le insultavano: era enorme il disprezzo che provavano per quelle “vendute” al nemico, e per le ragazze che condividevano la stessa fede nostalgica, era uno spettacolo odioso.
Ma anche quella era fame… soprattutto, ed anche una gran voglia di vivere e di godere…
Per alcune era già molto grave per un’ausiliaria accennare a un qualche atteggiamento civettuolo o tipicamente femminile con gli americani, perché le vedevano anche i feriti, “i nostri”, dicevano, dall’ospedale o dagli altri reticolati.
E molte glielo avevano fatto notare a Elvira, anche con veemenza, per quei suoi eccessi poco meditati, quei suoi toni sopra le righe... Ma non la conoscevano: soltanto Margherita poteva dare il giusto peso e senso ai comportamenti di Elvira, perché “lei era fatta della stessa stoffa di cui erano fatti i suoi sogni…”
Poi un mattino, grande adunata. Furono divise in due gruppi, che sarebbero stati gli scaglioni che partivano prima e dopo.
Margherita, Elvira e le “balilline” stavano nel secondo, perché nel primo c’erano quelle che avevano dichiarato di essersi arruolate nel servizio ausiliario per lo stipendio. Nel frattempo verso mezzogiorno, su tre camion, erano partite quelle già chiamate il giorno precedente: tutte erano quasi convinte di tornare a casa, quantunque non avessero loro riconsegnato né soldi né orologi. Invece le avevano portate alle carceri e consegnate agli italiani... “Altro che libertà! Povere ragazze erano partite così contente, e invece...” .
Ma alla fine avrebbero fatto anche loro, tutte, la stessa fine?
Alcune ricordando i partigiani, avevano un vero terrore angoscioso di ritornare nelle mani degli italiani, per la paura che i Comitati di liberazione nazionale tornassero a interessarsi di loro, ma ciononostante da qualche giorno non si faceva altro che parlare di partenza.
Poi la notizia, contrariamente alle altre volte, fu ufficiale. “Andremo a Firenze - annunciò Alba, la reporter del gruppo accreditata nelle alte sfere - in una scuola o accademia, non ho ben capito. Hanno già destinato le camere, non si aspetta che l’ordine”.
Il giorno dopo il capitano statunitense lesse l’elenco delle persone trasferite, le salutò con un insistente ritorno di sguardi su Elvira e invitò tutte a preparare la roba da portare via, cercando di fare la minore confusionepossibile.
E così il 12 settembre 1945 tutte furono trasferite nei locali della Nettezza Urbana a Casellina e consegnate agli italiani, ma si trattava di carabinieri congiunti a polizia militare alleata. Vi arrivarono in serata al nuovo campo, che poi non era un campo, bensì un grande edificio in muratura, con tante macerie tutto intorno.
Trasferendosi da Scandicci a Casellina, durante il breve viaggio in camion, riuscirono a vedere un po’ di vita libera, persino un tram e delle biciclette...
Nel nuovo campo era ancora tutto da organizzare, non c’era acqua e i gabinetti non funzionavano ancora.
Il mattino dopo, ispezione mista di americani e italiani. Un tenente e un capitano dei Carabinieri dettero il benvenuto. Dissero che dovevano passare sotto la loro “protezione’’.
Per via delle razioni sempre più esigue, alcune iniziavano a rimpiangere i “pasti abbondanti” degli americani: il pane che nei momenti più felici veniva tagliato in quattro parti, adesso era tagliato in sei e talvolta in otto parti. Ma finalmente tornavano a mangiare sui tavoli: lusso al quale si erano disabituate.
Poi una sera ci fu molto fermento perché era arrivato un biglietto in cui i comunisti del paese minacciavano un assalto con lanci di bombe a mano. E ne seguì un altro ancora. Ma la fame era sempre il problema principale, con qualche eccezione quando i parenti e gli amici venivano a trovare qualche ragazza che condivideva con le altre nei limiti del possibile e... della reciproca simpatia e affinità.
La mamma di Loredana era venuta a trovarla e tutte erano felici per lei. Aveva portato del pane (il buon pane casalingo), dell’uva e un coniglio arrosto. Fecero un pranzetto memorabile: c’era persino del vino nuovo e delle noci.
Da alcune persone che vennero a trovarle, seppero che i giornali pubblicavano la notizia che erano liberati oltre trentamila prigionieri di Coltano. E per molte, fra cui Elvira, ma non ancora Margherita, venne il giorno della libertà.
Quel mattino in cui Elvira fu liberata, continuavano a passare davanti all’edificio camion carichi di comunisti con grandi bandiere rosse. Naturalmente quando passavano, si scatenava un immenso coro di urla varie e di fischi. Correvano all’impazzata e qualcuno tornava indietro a protestare per le urla e per i fischi, mentre i carabinieri e la ronda MIG stavano pronti con i moschetti e le mitragliatrici per impedire eventuali assalti dall’esterno.
Margherita attendeva di veder uscire la sua grande amica dal portone principale: non c’era stato un addio ma un arrivederci, perché avevano deciso di rivedersi comunque. Si erano scambiati indirizzi ed Elvira dopo aver raggiunto la sua famiglia, sarebbe tornata a visitare Margherita subito dopo, qualora fosse stata ancora reclusa.
Per quanto commovente, il distacco non era stato drammatico: ma Margherita non poteva certo immaginare quello che sarebbe accaduto.
Mentre Elvira, uscendo dalla porta principale, attraversava la strada, cercando con lo sguardo quello di Margherita che la osservava da uno dei piani dell’edificio, un camion alleato guidato pericolosamente ad alta velocità investiva la povera ragazza che veniva scaraventata molte decine di metri più avanti.
Margherita, non appena si rese conto di quello che era successo, lanciò un urlo tremendo che richiamò le altre ragazze, che non riuscivano a superare lo sconvolgimento mentale che si era impadronito di tutte.
Margherita questa volta non resistette allo shock e cadde svenuta: fu soccorsa e portata in infermeria. Quando rinvenne chiese di Elvira e le fu detto che l’avevano condotta in ospedale nel tentativo di salvarla, ma le sue condizioni erano molto gravi. Dopo alcune ore giunse la notizia che Elvira era morta. Era il 20 novembre del 1945.
Margherita rimase stravolta, muta, con lo sguardo fisso nel nulla, senza mangiare, né bere: adesso aveva perso tutto e ogni personale risorsa fisica e spirituale. Pianse, pianse molto, non appena riuscì a farlo. Poi non aveva più lacrime a disposizione e le rimase soltanto il ghiaccio nel cuore. E i ricordi... Era straziante ricordare tutto, ma non riusciva a impedirselo.
Qualche giorno prima della sua liberazione, un giovane in borghese chiese di Margherita, ma non lo fecero entrare in parlatorio, perché era in corso una delle solite ispezioni e aveva lasciato all’ingresso frutta, formaggio e marmellata per lei. Era Luciano, il partigiano sedotto e tradito, ma ancora innamorato di lei.
Poi anche lei fu finalmente libera: era il 1° dicembre 1945.

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lunedì 25 aprile 2011

L'onore e la passione (III parte)

Capitolo 3°

Un angelo per Elsa: Damiano, il partigiano bianco

Al mattino un sole caldo raggiungeva il suo volto insinuandosi fra il canneto: era già alto ed Elsa sperò che davvero si fossero dimenticati di lei. La Provvidenza infatti aveva deciso così: dei mezzi che stazionavano nel piazzale di fronte all’enorme garage non c’era più traccia. Una lunga carovana era partita con tutto il suo carico umano di vincitori e vinti verso chissà quale destino. Era stato facile per lei, esile com’era, insinuarsi fra le canne che ad est chiudevano la stalla ed uscire fin sulla strada tremante ed ansiosa. Camminò, camminò a lungo, lungo sentieri erbosi della campagna, dove non c’erano traccia di ruote o impronte di uomini e cose: venne di nuovo la notte e trovò un angolo di riposo, tutta rannicchiata su se stessa come un bambino in grembo alla madre. Non si era accorta di aver ormai raggiunto la strada statale che conduceva a Milano e quindi con l’alba, chiunque transitasse poteva vederla.
Così si svegliò mentre un giovane alto, in divisa, possente, bellissimo, un vero angelo inviato dal cielo, la osservava e dolcemente si era chinato verso di lei. “Dio mio!" -pensò e gridò- "cosa vuoi da me?”.
“Cosa fai qui piccolina, che cosa ti hanno fatto? Alzati, non temere: la mia guerra è finita. Adesso inizia il compito più difficile per tutti: costruire una vera pace”.
Damiano aveva una coperta nella jeep e l’avvolse in essa. Poi la prese in braccio e la collocò sul sedile della macchina.
“Dio mio!" -pensò Elsa, questa volta senza parlare-”quanto sei bello!”. Ora d'improvviso non aveva più paura di nulla: istintivamente quando l’aveva abbracciata per poi avvolgerla nella coperta, si era sentita protetta dal mondo intero.
Non parlarono per un po’ perché Damiano comprese che tutto quello poteva chiederle, le sarebbe sembrato un interrogatorio e partirono con la jeep dopo che il motore aveva accusato difficoltà nel risorgere: infatti il carburante a disposizione in quel momento, anche per un importante ufficiale partigiano, era una specie di benzina annacquata sequestrata dai partigiani ad una colonna tedesca diretta verso la Svizzera.
Ma se Damiano la guardava, Elsa si sentiva svenire; se le sorrideva, quasi le sembrava di morire; se semplicemente la sfiorava, era tutta un brivido…

Elsa non si era mai innamorata se non dei propri sogni ed ideali: che questo fosse davvero l’innamoramento, così improvviso, provvido, inaspettato…?
Venne il momento che Damiano ritenne opportuno rompere il ghiaccio, come si suol dire, ma lui non sapeva di essere nella mente e nel cuore della ragazza già qualcosa di altro rispetto a se stesso.

Elsa in sostanza faceva quell’errore tipico di ciascuno nell’innamoramento: quello di attribuire quella straordinaria esperienza che stava vivendo alle qualità della persona amata: ma se ne sarebbe accorta molto più tardi in un altro contesto di impreviste coincidenze.
Disse Damiano: “Voglio aiutarti: anche se le circostanze, le tue condizioni mi rendono un po’ difficile il tutto: sai ho un fratello che aveva fatto la tua scelta e che è rimasto ucciso nell’assedio alla caserma della città da cui provieni”.
“Sono un partigiano bianco, il mio capo è Enrico Mattei: c’è un convento di suore francescane a metà strada con Milano dove puoi essere assistita e recuperare (alludeva alla totale rasatura dei capelli) un aspetto più normale…”.
“Ma io voglio venire con te” lo interruppe Elsa e gli strappò una promessa che onestamente Damiano non sapeva, né forse voleva mantenere: “Va bene, tornerò a prenderti!”. Ma sapeva in cuor suo di dire in quel momento una bugia necessaria.

Le suore accolsero benevolmente Elsa, ancora con la camicia lacera della divisa, il gladio, la gonna consunta, le scarpe ridotte a vere cioce: rimase poi sola con lui nel parlatorio del convento mentre le monache organizzavano l’ospitalità ed avrebbe voluto che in quel momento il tempo si fermasse per l’eternità.
Lui le stava vicinissimo e il suo cuore batteva forte forte.
Se l’avesse baciata o se lei avesse osato chiederglielo, sarebbe stato il più bel sogno vissuto. Ma quando poi se ne andò, per lei fu come la fine del mondo.

Passarono, giorni, settimane, mesi: Elsa recuperava in tutto. Le monache la tenevano informata sugli eventi (la fine del Duce, i processi in corso, le scorribande rosse). Doveva pazientare tranquilla perché davvero in quel convento fuori mano sul cucuzzolo di quel colle, poteva sentirsi al sicuro: poi se ci fossero state visite sgradite, anche lei, come quella signora ebrea nascosta da lungo tempo, avrebbe potuto indossare l’abito delle clarisse e il quanto mai provvido velo e copricapo.
Ester, la donna ebrea, più matura di lei, comunicò subito efficacemente con Elsa che iniziò a riflettere su quella realtà scomoda che erano state le leggi razziali per molti fascisti moderati e in buona fede. Quest'ultima le parlò di Ruth, la compagna di scuola costretta ad un forzato esilio o meglio a una fuga, insieme alla famiglia: si augurò che non le fosse accaduto il peggio e ripensò anche (non l’aveva mai dimenticata) a Sandra, l’altra amica del cuore e compagna di scuola che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva svoltato: aveva scelto di fare la “ribelle”. Ma la sorpresa riguardante quest’ultima doveva ancora arrivare inaspettata e …

Quanto a Damiano, Elsa l’aspettava fiduciosa e trepidante, non parlava che di lui; quando lo pensava non riusciva poi più a smettere; continuava a scrivere il suo nome ovunque fosse possibile farlo e non vedeva l’ora di rivederlo…

In fondo lo aveva visto e conosciuto per meno di una giornata. La bella superiora ascoltava e sorrideva quando Elsa, sincera e schietta, un po’ infantile perché inesperta di amori ed innamoramenti, si lasciava andare a sfoghi e confidenze: sembrava partecipare alla sua gioia e al suo furore ma c’era in lei anche una misteriosa condivisione riguardo ad un fascino maschile che non la lasciava insensibile: era stata un’amicizia ed una frequentazione di lungo corso, anche se niente di più di un sentimento puro, un rapporto platonico dove le pulsioni erano sistematicamente represse e sublimate nello spessore di una virtù castamente consolidata.
Passò l’estate, con le sue giornate interminabili fra le luci intense del mattino e i fuochi del meriggio: ma il fuoco che ardeva in Elsa. cresceva ogni giorno di più e liberava adesso la passione.

Arrivò settembre e tornò Damiano: per lei fu tutto un turbinio di emozioni e uno strano senso di felicità misto a malinconia: come un'adolescente insicura e non ancora padrona del proprio corpo e dei propri desideri, accusò qualcosa di simile ad un pugno nello stomaco quando intravvide nuovamente dalla finestra della sua celletta le fattezze di Damiano che era appena arrivato sul piazzale del convento, mentre la sua automobile sembrava piuttosto una locomotiva a vapore per la lunga scia di fumo che diffondeva nell’atmosfera.
Poi non riuscendo a controllare le sue emozioni, in alcuni momenti le sembrò di volare sino al settimo cielo mentre una gioia infinita esplodeva dentro di lei.

Capitolo 4°

Margherita ed Elvira: il viaggio

E fu così che la sera verso le 22,30 Margherita ed Elvira lasciarono la canonica con la benedizione di don Enrico e il grande sollievo di donna Beatrice che si fece promettere: “Mai più fascisti o fasciste... non cerchiamo grane, ne abbiamo già avute tante”. E gliel’aveva detto anche al professore: “Convinca suo figlio a non rischiare finché non sarà passato anche questo temporale”.
Lasciato il portone della canonica alle spalle, s’incamminarono timorose ma con passo deciso lungo la strada buia e silenziosa: non c’era un’anima viva, fortunatamente, e il ticchettio dei loro passi risuonava sul selciato e arrivava lontano una specie di eco che le teneva in uno stato di continuo allarme e tachicardia. Il percorso non era troppo lungo, ma lo scorrere del tempo era spasmodico.
Arrivarono a circa duecento metri dalla piazza senza incontrare nessuno. Poi sulla loro destra, verso la piazza del mercato:
“Ehi voi! dove andate?”. Non si voltarono per niente e scattarono come due molle. Si buttarono, ancora più pericolosamente, al centro della strada e iniziarono la corsa più veloce di tutta la loro vita. Sentirono il fischio acuto di qualcosa che le raggiunse e le sorpassò: alle loro spalle avevano aperto il fuoco dando così l’allarme. Gridavano e sparavano all’impazzata prendendole di mira, mentre le ragazze divoravano la strada inseguite da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa sul ritmo di quella musica forsennata. Mancava poco ormai... ancora due traverse, poi una: giunsero con il fiato grosso alla fine del viale, attraversarono, senza rallentare, lo spazio davanti ad un cancello chiuso, si arrampicarono come due scimmie sulle sbarre dello stesso, puntarono le braccia e saltarono dall’altra parte.
Si nascosero dietro una siepe del giardino da cui potevano vedere giù in fondo alla strada se stava arrivando qualcuno che le inseguiva, ma un certo schiamazzo lontano cessò e tornò un silenzio spettrale che dava loro dei brividi inconsueti. Abituate al ruolo di cacciatrici, erano ormai ben calate anche in quello di lepri: non fu necessario arrampicarsi di nuovo per uscire, perché il cancello si poteva aprire dall’interno e quindi uscirono con i loro zaini a tracolla. Tennero la sinistra, rasentando poi verso destra il muro della casa, girarono l’angolo e piombarono come un bolide in mezzo alla piazza sull’automobile in sosta con i fari accesi pronta a partire. Erano salve, per adesso!
L’avvocato non chiese neppure se erano effettivamente le persone che attendeva: era sicuro che fossero loro e le invitò a salire in fretta, perché era opportuno allontanarsi quanto prima dal centro cittadino. E così Margherita salì davanti, al fianco dell’autista, facendo prima sistemare Elvira sui sedili posteriori: ormai era lei, Margherita, che pensava a tutto anche alle necessità di Elvira che impaurita e stordita pendeva dalle sue labbra ed era per così dire la sua ombra. L’avvocato disse che aveva un salvacondotto del Comitato provinciale di liberazione nazionale e nel caso in cui avessero incontrato un posto di blocco, egli avrebbe garantito per loro dicendo che erano la sua segretaria e una sua nipote, sempre che qualcuno non le avesse riconosciute nella vera loro identità. A quel punto anche per lui sarebbero stati guai.
L’auto procedeva a un’andatura sostenuta e alle curve i fari ruotanti sembravano ombreggiare pericoli di cose e persone in agguato: d’improvviso svoltando ancora
si trovarono in mezzo a tante sagome in divisa che ondeggiavano e procedevano a zig zag verso di loro. L’avvocato si vide costretto a fermarsi e la luce intensa di una lampada li abbagliò. “Italian miss, segnorine, very nice, very good…come on, come on…..”. Erano soldati americani, la maggior parte ubriachi, che erano tutti usciti da un’osteria, uno di quei locali tipici nell’Italia settentrionale, anche nel dopoguerra e fino ad oggi, dove assolutamente non si mangia, ma si beve soltanto, e soltanto vino.
Aprirono lo sportello posteriore della macchina e uno afferrò per un braccio Elvira che incominciò a urlare, chiedendo aiuto a Margherita.
Quest’ultima con la sua fredda audacia estrasse in un attimo dallo zaino la sua pistola, afferrò il soldato di colore per il bavero della divisa e lo trasse a sé puntandogli l’arma alla bocca: “ Let her go or you are dead !”. Lasciala andare o sei morto !
Lo sguardo feroce e dominante di Margherita sicuramente non spaventò il soldato meno dell’arma…“Okay, okay…” disse il negro e si ritrasse fuori dall’abitacolo dopo aver mollato la ragazza. “Schizzi via... - disse Margherita all’avvocato che si era fermato senza spegnere il motore - gli altri si sposteranno… se non vogliono essere travolti”. L’avvocato obbedì anche perché la pistola adesso era puntata su lui... E già il varco si era aperto in mezzo a urla e gambe all’aria. I soldati incominciarono a sparare e i proiettili fischiavano mentre la loro scia oltrepassava l’auto in corsa. Presto si accorsero che dietro di loro in fondo in fondo al lungo viale, dopo aver più volte svoltato, incombevano due fari e il rumore di una jeep: li stavano inseguendo. Ma ormai si trovavano sulla strada statale che slargava sulla campagna e non fu difficile per l’avvocato seminarli, inoltrandosi in una strada secondaria e poi da lì in un’altra, sino a far perdere ogni traccia. Spenti i fari, rimasero tutti muti e silenziosi: l’imbarazzo per quanto accaduto e l’incertezza sulle decisioni da prendere, culminarono nella saggia scelta di riposare in macchina sino al sorgere del sole e si addormentarono.
All’alba per prima aprì gli occhi Margherita che svegliò molto cautamente Elvira e gli fece notare che si trovavano appena sotto la scarpata di una ferrovia, dove era fermo un treno trainato da una locomotiva a vapore con vetture e vagoni merci, indifferentemente tutti pieni zeppi di gente, uomini, donne, bambini e qualche consunta divisa.
L’avvocato era ancora sprofondato nel sonno e senza svegliarlo, dopo uno sguardo reciproco d’intesa, le ragazze sgattaiolarono fuori dalla macchina e di corsa raggiunsero appena in tempo il treno, che dopo essersi fermato in piena campagna, stava adesso ripartendo, in mezzo alle grida di giubilo della gente.
Qualcuno le aiutò a salire sugli scalini della vettura dandogli la mano, proprio già mentre le ruote si stavano muovendo e i carrelli fischiavano sulle rotaie. Non c’erano proprio posti liberi nella carrozza e si accontentarono di sedersi sul pavimento in un angolo ancora libero. Attirarono subito l’attenzione di alcuni giovanotti, particolarmente stimolati dal fascino e dallo sguardo particolarmente seducente di Elvira, che Margherita disapprovò suggerendole all’orecchio: “Attenzione!”. Da quanto sentivano in giro, il treno era diretto a Milano e quindi poteva andar bene. Alla stazione ci sarebbero stati senz’altro dei controlli, ma forse fino a quel momento potevano rilassarsi un po’. Un ragazzo, molto magro, Marco che ogni tanto incrociava lo sguardo, ora schivo, di Elvira comunque con grande compiacimento di quest’ultima, raccontava al suo interlocutore la sua storia recente: il primo gennaio 1945, mentre era lassù vicino al lago a ridosso delle Alpi, fu accerchiato vicino a casa dalle brigate nere. Gli piantarono una pistola nella schiena e poi lo portarono via. Arrestarono anche i suoi genitori dopo avere bruciato la loro casa. Erano feroci, anche perché due giorni prima, in un rastrellamento, avevano avuto pesanti perdite ed era anche morto il capo fascista che li comandava: un personaggio carismatico ma anche spietato, una “marcia su Roma”. Lo massacrarono di botte, anche in testa, prima di metterlo in prigione. Torturarono anche suo padre e sua madre, che avevano rispettivamente sessantacinque e sessanta anni. Lo portarono al poligono di tiro, per due volte, e credeva che lo fucilassero e invece si limitarono a torturarlo e a minacciarlo. Intanto il suo capo partigiano fece prigionieri cinque gerarchi fascisti della zona, poi informò i fascisti che se avessero ucciso Marco avrebbe mandato in città un carico di 500 teste di fascisti.
Verso la fine di marzo fu lasciato in libertà in cambio di ostaggi e ritornò alla brigata, lassù in fondo al pianoro, sfinito: da settantasei chili era ridotto a circa quaranta. Intanto i partigiani avevano vinto un’importante battaglia il 5 di aprile, cacciando via i fascisti imbestialiti che avevano tentato un ultimo rastrellamento in massa, rafforzati da SS tedesche e italiane, e che alla fine, sconfitti, erano dovuti fuggire fino oltre il ponte della ferrovia al piano, senza curarsi dei morti e dei feriti abbandonati sul terreno a decine. Durante aprile c’erano stati scioperi in molte fabbriche della provincia. Frattanto aumentavano le formazioni partigiane mentre, già dal giorno dieci, il Comitato provinciale di liberazione nazionale aveva affidato le trattative per la resa a un prelato della curia vescovile. Dopo il 25 aprile, esponenti di spicco della repubblica sociale erano stati fermati mentre tentavano l’espatrio, erano stati condannati a morte e il 27 aprile erano state eseguite le prime sentenze del tribunale del popolo. Presto sarebbero iniziati in Corte d’Assise i processi contro i tutti i collaborazionisti. Margherita ascoltava tutto con attenzione e tornava a preoccuparla il comportamento istintivamente un po’civettuolo di Elvira, troppo al centro dell’attenzione, perché ciò costituiva un rischio potenziale di coinvolgimento.
Giunti a una stazione secondaria di Milano, il treno si fermò e una squadra di partigiani col fazzoletto rosso intorno al collo, armati fin sopra i denti, comprese tre donne, salì nella carrozza avanti alla loro e arrestarono un uomo sulla sessantina che incominciò a urlare, contestando l’identità che gli era attribuita e protestando la sua innocenza.
“E’ una spia, torturatore di partigiani e delatore di ebrei: è responsabile della morte di tanti patrioti” – dichiarò una delle donne partigiane agli attoniti sbigottiti viaggiatori che chiedevano chi fosse. Margherita si avvicinò al finestrino e lo vide scendere dal treno bersagliato da calci e pugni di partigiani inferociti. Lo lasciarono in disparte da solo, fingendo quasi di dimenticarsi di lui: tentò la fuga e fu immediatamente freddato dai mitra impazienti. Lo aveva riconosciuto, era Lorenzo, un toscano, già collaboratore di Pavolini. Rimase turbata e pensò ad alta voce: “Che vigliacchi, l’hanno fatto apposta...”.
In quel momento si affacciò nel loro vagone una partigiana del gruppo con il mitra in mano e osservò un po’tutti, soffermandosi in particolare sulle due ragazze con uno sguardo alquanto interrogativo, ma fu distolta dal compagno Luca che la chiamò: “Clara, vieni, dobbiamo andare...”. Lei si ritrasse e scese dal treno che stava ripartendo verso la stazione centrale.
Prima dello stop alla stazione centrale, le due ragazze, approfittando del rallentamento del treno, erano già saltate giù e prendevano in corsa un altro convoglio in partenza che già era in movimento.
I viaggiatori di questo convoglio erano dei veri fantasmi, ebrei già internati in un campo di concentramento italiano in attesa di essere poi trasferiti in Germania, abbandonati dai loro carcerieri fascisti e tedeschi al momento della fuga e della resa e poi assistiti dalla Croce Rossa ed erano diretti a Bologna.
L’impatto psicologico fu tremendo: erano vere larve di uomini e di donne con i loro sguardi perduti nel vuoto, i volti emaciati e quasi increduli del presente. Elvira più sensibile, certo meno complessa e talvolta un po’ sconsiderata com’è tipico di tanti giovani, ma sincera, sussurrò a Margherita: “E questi erano i nostri nemici?”.
Per contro Margherita si girò verso di lei, la osservò a lungo, ma pensava ad altro, e non fece proprio alcun commento.
Trovarono posto in un angolo del vagone, si rannicchiarono alla ricerca di una posizione favorevole al riposo, mentre tutti i presenti continuavano a osservarle in silenzio.
Questa fissità degli sguardi, uniti talvolta a un ghigno del volto che assomigliava un sorriso, senza mai esserlo, era qualcosa di molto inquietamente per Elvira che per sua natura era tutta un crogiuolo di emozioni, pulsazioni, sensazioni, presentimenti: una vera babele del cuore. Margherita era più fredda e distaccata: per quanto potevano raggiungerla o colpirla fatti imprevisti o imprevedibili, l’adrenalina, il calore e il turbamento della carica emotiva non riuscivano, se non superficialmente, a scalfire quella coltre di ghiaccio e d’impermeabilità che era costitutiva della sua anima.
Trattandosi di un convoglio speciale riservato agli ebrei, non ci furono controlli alle stazioni e le ragazze poterono agevolmente raggiungere con i tempi di quella era la circolazione dei treni in quei momenti, la città di Reggio Emilia.
Ma qui le due ragazze scesero dal treno dalla parte opposta della normale discesa sotto la pensilina, dopo aver verificato che non ci fossero pericoli, perché Margherita pensava di poter trovare appoggio da quel lontano parente di cui la mamma parlava sempre e di cui ricordava l’indirizzo, un ricco proprietario terriero che possedeva una villa sontuosa, non distante dallo scalo ferroviario ed anche perché fra tanta gente muta e curiosa, che non faceva domande, aveva visto il rabbino parlottare con una specie di addetto alla sicurezza, senz’altro alludendo alla loro sconosciuta presenza nel treno. Superato il muro di cinta della stazione, s’incamminarono lungo la strada che costeggia per un po’la ferrovia: chiesero a una passante come raggiungere quella via e ottennero le più ampie e cortesi spiegazioni. Raggiunta la villa che si trovava in periferia ai limiti dell’abitato cittadino, trovarono aperto il cancello di ferro che introduceva al lungo viale circondato da una vegetazione lussureggiante e descritto da una lunga serie di pini mediterranei, e scorsero giù in fondo la villa. Tutto era tranquillo, silenzioso, ordinato, per cui sicuramente quel suo zio di un qualche grado di parentela (che la mamma aveva conosciuto durante un viaggio che aveva fatto in Sicilia prima della guerra) non era assente o almeno la villa non era abbandonata e il tenore di vita doveva essere abbastanza florido. Stavolta in Margherita, forse per la stanchezza, l’istinto e l’apparenza prevalsero sulla prudenza e sulla razionalità. Avrebbero potuto sondare la situazione nascondendosi in qualche angolo della villa e attendere un qualche movimento di persone che confermasse loro che tutto era normale, come previsto. Invece suonarono subito al portone tramite la campanella di bronzo che emise un forte suono. Prima silenzio assoluto, poi sentirono dei passi che si avvicinavano fino ad aprire la porta e...: “Chi siete, cosa volete?” - esclamò una vecchia signora dal piglio rozzo e un po’ autoritario, mentre alle spalle sentirono premere le canne di due fucili, che le spingevano dentro casa. Si trovarono subito di fronte un giovane armato dall’apparente età di 30-35 anni, con un fazzoletto rosso al collo, barba e berretto militare che ripeté la domanda: “Chi siete?”
Non avevano scelta migliore che dire un pezzo di verità e non c’era il tempo per pensarne un’altra.
“Questa villa è stata requisita dal comando di brigata a quel vecchio criminale fascista che ha affamato il popolo per lungo tempo e negli ultimi tempi faceva anche borsa nera insieme ai tedeschi: ma è stato punito così come meritava”.
“Siamo due studentesse dirette a Bologna e qui una nostra cugina, che vi lavorava come cameriera, ci aveva detto di chiedere di lei qualora fossimo capitate da queste parti per avere ospitalità…”.
Margherita preferì vantare un’amicizia proletaria piuttosto che una fatale parentela con un latifondista fascista. La vecchia signora che da tanto tempo prestava servizio nella villa, le guardò un po’ interdetta, sapendo che non si trattava della verità, ma tacque. Il comandante partigiano disse che troppa gente si nascondeva sotto mentite spoglie perché collaborazioniste o criminali, per cui il commissario politico che al momento era assente, le avrebbe interrogate al suo ritorno e per adesso dovevano attendere in una stanza sotto vigilanza armata. La guardia rimase fuori della porta della stanza che era collocata al piano terra della villa e c’era anche un grande finestrone, ma tragicamente anche una robusta inferriata.
Passò circa un’ora e la porta si aprì: comparve il partigiano di guardia che iniziò ad apostrofarle con disprezzo:
“Siete puttane fasciste; anche voi farete la fine degli altri affamatori del popolo. Però tu biondina, visto che è il tuo mestiere, potresti essere gentile con me e la tua amica potrebbe far contento il mio compagno Gianni che è qui pronto a fare la sua parte…!”. A questo punto Elvira ebbe, come si suole dire, un “lampo di genio” e decise da sola senza un momento di esitazione; anzi provocatoriamente (era seduta per terra) tirò su la gonna fino ai fianchi mettendo in mostra quelle due gambe stupende e ben tornite e rispose: “Ma certo, perché no?”. E lanciò un’occhiata a Margherita dicendole: “Ci stai anche tu, no?”. “Ma certamente – concordò Margherita - che nel frattempo, dato che non erano state perquisite, aveva sfilato la rivoltella dallo zaino. Elvira da perfetta attrice si lanciò (aveva scoperto anche il seno) in mezzo ai due giovani che ormai stavano in mezzo alla stanza e lei li abbracciava ambedue, mentre loro la palpavano sul seno e altrove. Margherita senza che se ne avvedessero, perché distratti dalle grazie e dall’iniziativa di Elvira, si collocò alle loro spalle e mentre Elvira colpiva quello alla sua destra con uno spaventoso calcio ai genitali, rafforzato dagli scarponi, facendolo stramazzare per terra sino a svenire, Margherita puntò la pistola alla schiena dell’altro dicendogli: “Se provi a fiatare, sei morto!”, mentre con l’altra mano aveva impugnato un badile che era lì pronto
appoggiato al muro e lo faceva letteralmente schiantare contro la testa di quest’ultimo, che cadde a terra perdendo conoscenza.
La porta era aperta e le armi degli uomini a disposizione: corsero con il cuore in gola lungo il corridoio nella direzione in cui dava su una porta esterna. Ma quando stavano per aprire la porta, Elvira si sentì afferrare un braccio: “No, no, seguitemi….” era la vecchia che le condusse nei sotterranei della villa, e giunti alla cantina prese una grossa chiave, aprì una porta cigolante, oltre la quale iniziava un viottolo erboso che costeggiava un muro; al termine di esso avrebbero dovuto scendere giù, guadando il torrente e poi proseguire verso sud in mezzo ai frutteti fino a raggiungere la via Emilia per Modena.
“Che Dio vi protegga, figliole…”
Ambedue ricambiarono con un rapido abbraccio e si allontanarono con i due mitra e gli zaini, mentre la pistola, un regalo del ministro Pavolini, era rimasta dentro la villa.

Trovarono rifugio in una capanna in mezzo ad un frutteto e lontana dalle strade di principale comunicazione e il mattino dopo, avvicinandosi cautamente alla via Emilia, videro un camion scoperto che ansimava nel tornante, guidato da una sola persona, un vecchio da una lunga barba bianca. Uscirono allo scoperto, con i mitra alla mano, e gli fecero segno di fermarsi: si fermò subito e le ragazze dissero di essere due studentesse che dalla casa di campagna volevano rientrare in città. E invece dei libri e della penna, avevano quei due attrezzi: “Salite pure, chiunque siate, non temo più nulla, bombardamenti, spari, soldati e partigiani, e neppure la morte. Può venire quando vuole, sono pronto”.
Il vecchio era molto saggio e distaccato: non aveva più paura di nulla e come tutte le persone molto anziane, pensava che ogni giorno che la Provvidenza gli concedeva, era in fondo un regalo in più, ma bisognava farne un buon uso e addormentarsi con serenità e giustizia. Le aveva scambiate per due partigiane e si raccomandava con loro perché non si servissero delle armi per sfogare odio e vendetta.
“Sognate, dopo il fascismo e la guerra, una società libera e democratica e volete, giustiziando, cancellare il passato, ma il fine non giustifica mai i mezzi, anzi i mezzi spesso prefigurano già i fini che si vogliono raggiungere...”
“Ma noi siamo soldatesse ausiliarie di Mussolini…” intervenne Elvira, ritenendo che ci fosse convergenza d’idee. Il vecchio le guardò con commiserazione e chiuse la conversazione: “Dio perdona loro, perché non sannoquello che hanno fatto….” Margherita, con uno sguardo indicativo, fece capire a Elvira la sua disapprovazione: non avrebbe dovuto lasciarsi andare… Da quel momento in poi non ci furono più scambi di parole. Poi arrivati nei pressi di Modena, imprevedibilmente dopo un curvone, incapparono, senza potervi in alcun modo sfuggire, in un posto di blocco di partigiani comunisti. Furono arrestate e portate al paese vicino: allontanandosi dal posto di blocco, videro che stavano perquisendo l’autocarro del vecchio e pensarono che di sicuro avrebbero anche trovato i due mitra che esse avevano lasciato nel camion. Furono chiuse in un garage in compagnia di altre undici ausiliarie che erano ancora in divisa e con loro
c’erano anche sei militi della GNR, provenienti tutti dal nord, che avevano condiviso il viaggio con le ausiliarie.
Sottoposte all’interrogatorio, Margherita ed Elvira, per salvarsi, dichiararono di essere prostitute che avevano lasciato la casa di tolleranza di Reggio Emilia per seguire dei soldati, che poi non avevano voluto più saperne di loro.
Il capo dei partigiani disse: “Va bene, allora ci occuperemo più tardi di voi!” Ma furono costrette a seguire le altre donne e i militi fino alla piazza del paese, dove si trovarono sommerse dalle urla e dagli insulti della folla che chiedeva giustizia sommaria.
Furono schierati tutti in fila davanti al muro con le mani legate, ad eccezione di Margherita ed Elvira, che erano rimaste molto in disparte, mentre un plotone improvvisato si allineava di fronte ai condannati.
Fu a quel punto che una delle ausiliarie, Adele, si mise a urlare scongiurando i “giustizieri” di salvare sua sorella Maria, che era nel gruppo, perché potesse aver cura della loro madre, cieca e sola. Maria fu afferrata da un partigiano e spinta da parte.
Subito dopo il plotone aprì il fuoco, ma vedendo la sorella cadere assieme agli altri, Maria gridò per la disperazione con quanto fiato aveva in gola. Per farla tacere, un partigiano le scaricò il mitra addosso, freddando anche lei. Intanto, una scena irreale, spaventosa, stava accadendo. L’ausiliaria Anita, che era rimasta soltanto ferita, si alzò dal mucchio sanguinante, avanzando verso i suoi assassini. Le fu dato il colpo di grazia.
Tra le ausiliarie c’erano altre due sorelle, Ida e Bianca. Anch’esse erano rimaste soltanto ferite, e Bianca urlava: “Uccidetemi! Uccidetemi!”. Mentre i partigiani si preparavano a finirle, si precipitò davanti a loro padre Paolo del vicino convento dei Cappuccini. “No” disse “non lo fate”. Stanno morendo. Andate via. Le assisterò io sino alla fine”. I “giustizieri” lo lasciarono trascinare le tre sventurate all’interno del convento, anche perché erano distratti e impegnati a gustarsi nei minimi particolari l’agonia di un milite che, meno esposto ai colpi dei carnefici, non era morto sul colpo, ma si lagnava debolmente e, annaspando con le mani, cercava di sciogliersi dalle funi che lo tenevano legato agli altri del gruppo, e, mugolando, suscitava l’ilarità di chi lo aveva appena colpito, e ora continuava a colpirlo con randellate sorde che gli frantumavano ossa e cranio.
La distrazione dei partigiani fu provvidenziale per le nostre ragazze: Margherita lanciò uno sguardo d’intesa a Elvira, che captava sempre al volo le intenzioni dell’amica, e mentre la folla spingeva e le avvolgeva, si eclissarono letteralmente in mezzo alla gente, allontanandosi prima lentamente e discretamente e poi, abbastanza lontane e fuori dall’assembramento, iniziarono una corsa spasmodica e disperata lungo i vicoli del centro storico, finché raggiunsero la porta medioevale, che oltrepassarono, nascondendosi in mezzo ad un campo di grano.
La fuga era stata davvero miracolosa, ma era meglio non approfittarsi di tanta fortuna: bisognava continuare il viaggio verso Bologna lungo percorsi di campagna inusitati, approfittando ogni tanto dell’aiuto e dell’ospitalità di qualche famiglia contadina. Vagarono così per qualche giorno nutrendosi dei frutti della campagna. Si spostarono un po’ sulle alture e videro scorrere alla loro destra la città di Modena, finché, scendendo, videro al piano una casetta rosa in mezzo al verde.
Percorsero il lungo viottolo che conduceva al casolare: a Margherita sembrò di rivedere la casetta natia in Sicilia bombardata dagli angloamericani. Giunti nell’aia un vecchio contadino e una giovane donna incinta sembravano attenderle. Una donna anziana invece stava affacciata alla finestra: proiettò in quella donna l’immagine di sua madre scomparsa, sorridente e quindi beneaugurante.
Elvira parlò per prima: “Vorremmo mangiare un boccone...”
”Venite in casa”, rispose il vecchio.
Nessuno chiese loro chi fossero e da dove venissero: anzi i due coniugi anziani invitarono le ragazze a trattenersi per qualche giorno, per riposarsi, mentre la giovane donna incinta al sesto mese raccontò loro la sua storia.
Assunta, così si chiamava, veniva da Piacenza, dove a metà aprile, suo marito, un membro del CLN locale era stato arrestato e giustiziato dai brigatisti neri e voleva raggiungere i suoi genitori a Bologna. Arrivata qualche giorno prima, a tarda sera, fortunosamente alla stazione di Modena, aveva chiesto alloggio a un albergo vicino, ma le era stato rifiutato perché priva di documenti. Fra l’altro le fu detto che tutte le notti i partigiani passavano a controllare i documenti dei clienti e verificavano l’occupazione delle camere e quindi rischiavano molto ad accoglierla.
Fino a quel momento il suo stato interessante era stato un valido lasciapassare e tutti l’avevano rispettata e lasciata andare. Allora un avventore dell’albergo s’incaricò di accompagnarla a un centro di accoglienza delle suore francescane che non era molto distante, ma durante il tragitto, nel buio della notte in una strada stretta e deserta, furono aggrediti da quattro giovinastri che immobilizzarono l’uomo e portarono via la donna in un camioncino. Giunti in mezzo alla campagna, l’avevano violentata ripetutamente e abbandonata a un crocevia, dopo averle anche assestato dei calci all’addome. Per questo
temeva di perdere il figlio. Fu raccolta da quel contadino che la portò a casa e la moglie si occupò di lei. Margherita ed Elvira rimasero per alcuni giorni nel casolare, in attesa di riprendere il viaggio per Bologna, finché avvenne un fatto tragico e del tutto imprevisto.
Una notte verso le 23 il contadino vide passare attraverso la strada che dal suo pozzo conduceva là nella campagna oltre il ponte della ferrovia, terminando nei campi incolti, una corriera piena di gente, ove sembrava ci fossero anche donne e bambini, preceduta e seguita da due motociclette guidate da armati di mitra. Uno di essi lo vide nell’aia e lo raggiunse in motocicletta chiedendogli dei badili. Glieli consegnò e vennero anche altri a prenderli e se ne andarono, dopo aver ben visto in faccia il vecchio, illuminandolo con una lampada. La corriera tornò indietro dopo un’ora e sembrava vuota; poi ripassò, ancora dopo, piena di nuovo carico umano. Il giorno dopo una pattuglia di partigiani, composta da due uomini e da una donna, entrarono nell’aia del casolare. Chiesero al vecchio se aveva del vino e vollero scendere nelle cantine, dove nel frattempo si erano nascoste le due ragazze, pensando di essere al sicuro. “E voi che fate qui? - chiese l’uomo scoprendole rannicchiate in un angolo, dietro una botte. “Siete fasciste, eh... avanti, vi portiamo al comando”. “Ma ammazziamole qui queste puttane”, disse la donna. “No, disse l’uomo, le portiamo con noi. Sono io che comando”. “Ma guarda un po’come ti sei intenerito: ti piacciono queste troie, quale di più, la bionda o la mora?”.E scoprì loro il petto: “Sono fatte bene. eh? Sai quanta sifilide avranno accumulato con i neri…”. “Se tu provi a fartele, ti cavo gli occhi”, replicò la donna con evidente gelosia. “E va bene - concluse la donna - uhm, che capelli.” Disse prima lisciando e poi tirando violentemente i capelli di Elvira: “Daremo lavoro al barbiere…”Uscendo, videro il vecchio e subito lo aggredirono spingendolo verso il muro di una capanna: “Le nascondevi, eh… Preparati a morire”.
“Madonnina mia, aiutatemi” - esclamò il vecchio.
Uscì dal fienile la donna incinta: “No, non lo uccidete; è una brava persona… Io sono la moglie di un comandante partigiano e...” Non ebbe il tempo di finire perché fu freddata da una raffica e si accasciò, con la mano nella pancia, quasi a voler proteggere il bambino che aveva in grembo.
Poi uno esclamò rivolto al vecchio: “Niente più Cristi, né Madonne, né padroni”, e scaricò il mitra sul contadino.
Le due ragazze caricate a calci in una macchina, videro la moglie del contadino che urlava e piangeva da una delle finestre del casolare. “Povera mamma - pensò Margherita proiettando di nuovo in lei l’immagine e il ricordo della propria mamma - me l’hanno ammazzata due volte!”
Giunti al municipio del paese, dove subito dopo la liberazione si era insediato il CLN locale che come primo atto “democratico e libertario” aveva condannato a morte il podestà e il segretario del fascio repubblicano con immediata esecuzione dei medesimi, al loro arrivo i due partigiani e la donna, con le loro prede succulente, dovettero constatare che tutti i poteri erano passati a un maggiore inglese e al suo battaglione che aveva preso possesso del paese: i soldati avevano anche requisito diverse ville e palazzi, mentre tre carri armati stazionavano nella piazza centrale.
Non poterono fare a meno di consegnare le due donne agli inglesi, con relativo sollievo e soddisfazione da parte della partigiana, insofferente di fronte alle insistenti attenzioni del suo compagno e comandante verso le due prigioniere.
I partigiani erano sconvolti: temevano anche che gli alleati li disarmassero e questo provocava in loro rabbia, creava delusione e malumori.
Il maggiore interrogò le ragazze e le rassicurò perché garantiva per la loro incolumità: nel caso in cui avessero confessato di aver aderito alla “sedicente repubblica sociale italiana”, sarebbero state trasferite in uno dei campi di concentramento femminile che erano apprestati in Toscana, Coltano, Casellina o Scandicci e avrebbero rischiato sanzioni di altro genere soltanto se fossero state giudicate colpevoli di gravi crimini.
L’interrogatorio incalzante produsse alla fine dei risultati: Elvira confessò il minimo che poteva confessare e “tutto considerato era meglio così” - ne convenne anche Margherita.
Il maggiore dette disposizioni al sergente perché le due ragazze, “very nice, beautiful girls”, fossero accompagnate al centro di raggruppamento situato alla periferia di Bologna.
“I hope to revise it, miss! (Spero di rivederla ancora, signorina !)” - così il maggiore salutò Elvira in inglese. Margherita le tradusse il concetto con un certo compiacimento, che era complicità con l’amica, ma anche apprezzamento partecipato e condivisione per un fascino che non la lasciava insensibile.
Dopo alcuni giorni di permanenza al Centro di raggruppamento di Bologna, sulle rive del fiume Reno, arrivò il giorno di partire per la destinazione finale. Il viaggio da Bologna, ridotta a un cumulo di macerie, verso il campo di concentramento in Toscana fu abbastanza avventuroso su grossi camion militari scoperti, guidati in modo alquanto spericolato da baldi negroni in divisa. Non sfuggì a Elvira che era veramente un bel ragazzo quel soldato americano che le tirava su aiutandole gentilmente a salire sul camion, mentre in ogni spostamento i partigiani rossi stavano pronti a ogni angolo delle strade per prenderle a sassate.
Mentre Margherita, com’era suo stile, se ne stava un po’ in disparte, Elvira solidarizzava con tutti, camerati e camerate. Nel risalire i tornanti dell’Appennino, i prigionieri si abbandonarono a canti “patriottici”, dei quali agli alleati non importava assolutamente nulla se erano d’intonazione fascista, ma comunque evitavano di cantare quando attraversavano qualche paese.

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