lunedì 25 aprile 2011

L'onore e la passione (III parte)

Capitolo 3°

Un angelo per Elsa: Damiano, il partigiano bianco

Al mattino un sole caldo raggiungeva il suo volto insinuandosi fra il canneto: era già alto ed Elsa sperò che davvero si fossero dimenticati di lei. La Provvidenza infatti aveva deciso così: dei mezzi che stazionavano nel piazzale di fronte all’enorme garage non c’era più traccia. Una lunga carovana era partita con tutto il suo carico umano di vincitori e vinti verso chissà quale destino. Era stato facile per lei, esile com’era, insinuarsi fra le canne che ad est chiudevano la stalla ed uscire fin sulla strada tremante ed ansiosa. Camminò, camminò a lungo, lungo sentieri erbosi della campagna, dove non c’erano traccia di ruote o impronte di uomini e cose: venne di nuovo la notte e trovò un angolo di riposo, tutta rannicchiata su se stessa come un bambino in grembo alla madre. Non si era accorta di aver ormai raggiunto la strada statale che conduceva a Milano e quindi con l’alba, chiunque transitasse poteva vederla.
Così si svegliò mentre un giovane alto, in divisa, possente, bellissimo, un vero angelo inviato dal cielo, la osservava e dolcemente si era chinato verso di lei. “Dio mio!" -pensò e gridò- "cosa vuoi da me?”.
“Cosa fai qui piccolina, che cosa ti hanno fatto? Alzati, non temere: la mia guerra è finita. Adesso inizia il compito più difficile per tutti: costruire una vera pace”.
Damiano aveva una coperta nella jeep e l’avvolse in essa. Poi la prese in braccio e la collocò sul sedile della macchina.
“Dio mio!" -pensò Elsa, questa volta senza parlare-”quanto sei bello!”. Ora d'improvviso non aveva più paura di nulla: istintivamente quando l’aveva abbracciata per poi avvolgerla nella coperta, si era sentita protetta dal mondo intero.
Non parlarono per un po’ perché Damiano comprese che tutto quello poteva chiederle, le sarebbe sembrato un interrogatorio e partirono con la jeep dopo che il motore aveva accusato difficoltà nel risorgere: infatti il carburante a disposizione in quel momento, anche per un importante ufficiale partigiano, era una specie di benzina annacquata sequestrata dai partigiani ad una colonna tedesca diretta verso la Svizzera.
Ma se Damiano la guardava, Elsa si sentiva svenire; se le sorrideva, quasi le sembrava di morire; se semplicemente la sfiorava, era tutta un brivido…

Elsa non si era mai innamorata se non dei propri sogni ed ideali: che questo fosse davvero l’innamoramento, così improvviso, provvido, inaspettato…?
Venne il momento che Damiano ritenne opportuno rompere il ghiaccio, come si suol dire, ma lui non sapeva di essere nella mente e nel cuore della ragazza già qualcosa di altro rispetto a se stesso.

Elsa in sostanza faceva quell’errore tipico di ciascuno nell’innamoramento: quello di attribuire quella straordinaria esperienza che stava vivendo alle qualità della persona amata: ma se ne sarebbe accorta molto più tardi in un altro contesto di impreviste coincidenze.
Disse Damiano: “Voglio aiutarti: anche se le circostanze, le tue condizioni mi rendono un po’ difficile il tutto: sai ho un fratello che aveva fatto la tua scelta e che è rimasto ucciso nell’assedio alla caserma della città da cui provieni”.
“Sono un partigiano bianco, il mio capo è Enrico Mattei: c’è un convento di suore francescane a metà strada con Milano dove puoi essere assistita e recuperare (alludeva alla totale rasatura dei capelli) un aspetto più normale…”.
“Ma io voglio venire con te” lo interruppe Elsa e gli strappò una promessa che onestamente Damiano non sapeva, né forse voleva mantenere: “Va bene, tornerò a prenderti!”. Ma sapeva in cuor suo di dire in quel momento una bugia necessaria.

Le suore accolsero benevolmente Elsa, ancora con la camicia lacera della divisa, il gladio, la gonna consunta, le scarpe ridotte a vere cioce: rimase poi sola con lui nel parlatorio del convento mentre le monache organizzavano l’ospitalità ed avrebbe voluto che in quel momento il tempo si fermasse per l’eternità.
Lui le stava vicinissimo e il suo cuore batteva forte forte.
Se l’avesse baciata o se lei avesse osato chiederglielo, sarebbe stato il più bel sogno vissuto. Ma quando poi se ne andò, per lei fu come la fine del mondo.

Passarono, giorni, settimane, mesi: Elsa recuperava in tutto. Le monache la tenevano informata sugli eventi (la fine del Duce, i processi in corso, le scorribande rosse). Doveva pazientare tranquilla perché davvero in quel convento fuori mano sul cucuzzolo di quel colle, poteva sentirsi al sicuro: poi se ci fossero state visite sgradite, anche lei, come quella signora ebrea nascosta da lungo tempo, avrebbe potuto indossare l’abito delle clarisse e il quanto mai provvido velo e copricapo.
Ester, la donna ebrea, più matura di lei, comunicò subito efficacemente con Elsa che iniziò a riflettere su quella realtà scomoda che erano state le leggi razziali per molti fascisti moderati e in buona fede. Quest'ultima le parlò di Ruth, la compagna di scuola costretta ad un forzato esilio o meglio a una fuga, insieme alla famiglia: si augurò che non le fosse accaduto il peggio e ripensò anche (non l’aveva mai dimenticata) a Sandra, l’altra amica del cuore e compagna di scuola che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva svoltato: aveva scelto di fare la “ribelle”. Ma la sorpresa riguardante quest’ultima doveva ancora arrivare inaspettata e …

Quanto a Damiano, Elsa l’aspettava fiduciosa e trepidante, non parlava che di lui; quando lo pensava non riusciva poi più a smettere; continuava a scrivere il suo nome ovunque fosse possibile farlo e non vedeva l’ora di rivederlo…

In fondo lo aveva visto e conosciuto per meno di una giornata. La bella superiora ascoltava e sorrideva quando Elsa, sincera e schietta, un po’ infantile perché inesperta di amori ed innamoramenti, si lasciava andare a sfoghi e confidenze: sembrava partecipare alla sua gioia e al suo furore ma c’era in lei anche una misteriosa condivisione riguardo ad un fascino maschile che non la lasciava insensibile: era stata un’amicizia ed una frequentazione di lungo corso, anche se niente di più di un sentimento puro, un rapporto platonico dove le pulsioni erano sistematicamente represse e sublimate nello spessore di una virtù castamente consolidata.
Passò l’estate, con le sue giornate interminabili fra le luci intense del mattino e i fuochi del meriggio: ma il fuoco che ardeva in Elsa. cresceva ogni giorno di più e liberava adesso la passione.

Arrivò settembre e tornò Damiano: per lei fu tutto un turbinio di emozioni e uno strano senso di felicità misto a malinconia: come un'adolescente insicura e non ancora padrona del proprio corpo e dei propri desideri, accusò qualcosa di simile ad un pugno nello stomaco quando intravvide nuovamente dalla finestra della sua celletta le fattezze di Damiano che era appena arrivato sul piazzale del convento, mentre la sua automobile sembrava piuttosto una locomotiva a vapore per la lunga scia di fumo che diffondeva nell’atmosfera.
Poi non riuscendo a controllare le sue emozioni, in alcuni momenti le sembrò di volare sino al settimo cielo mentre una gioia infinita esplodeva dentro di lei.

Capitolo 4°

Margherita ed Elvira: il viaggio

E fu così che la sera verso le 22,30 Margherita ed Elvira lasciarono la canonica con la benedizione di don Enrico e il grande sollievo di donna Beatrice che si fece promettere: “Mai più fascisti o fasciste... non cerchiamo grane, ne abbiamo già avute tante”. E gliel’aveva detto anche al professore: “Convinca suo figlio a non rischiare finché non sarà passato anche questo temporale”.
Lasciato il portone della canonica alle spalle, s’incamminarono timorose ma con passo deciso lungo la strada buia e silenziosa: non c’era un’anima viva, fortunatamente, e il ticchettio dei loro passi risuonava sul selciato e arrivava lontano una specie di eco che le teneva in uno stato di continuo allarme e tachicardia. Il percorso non era troppo lungo, ma lo scorrere del tempo era spasmodico.
Arrivarono a circa duecento metri dalla piazza senza incontrare nessuno. Poi sulla loro destra, verso la piazza del mercato:
“Ehi voi! dove andate?”. Non si voltarono per niente e scattarono come due molle. Si buttarono, ancora più pericolosamente, al centro della strada e iniziarono la corsa più veloce di tutta la loro vita. Sentirono il fischio acuto di qualcosa che le raggiunse e le sorpassò: alle loro spalle avevano aperto il fuoco dando così l’allarme. Gridavano e sparavano all’impazzata prendendole di mira, mentre le ragazze divoravano la strada inseguite da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa sul ritmo di quella musica forsennata. Mancava poco ormai... ancora due traverse, poi una: giunsero con il fiato grosso alla fine del viale, attraversarono, senza rallentare, lo spazio davanti ad un cancello chiuso, si arrampicarono come due scimmie sulle sbarre dello stesso, puntarono le braccia e saltarono dall’altra parte.
Si nascosero dietro una siepe del giardino da cui potevano vedere giù in fondo alla strada se stava arrivando qualcuno che le inseguiva, ma un certo schiamazzo lontano cessò e tornò un silenzio spettrale che dava loro dei brividi inconsueti. Abituate al ruolo di cacciatrici, erano ormai ben calate anche in quello di lepri: non fu necessario arrampicarsi di nuovo per uscire, perché il cancello si poteva aprire dall’interno e quindi uscirono con i loro zaini a tracolla. Tennero la sinistra, rasentando poi verso destra il muro della casa, girarono l’angolo e piombarono come un bolide in mezzo alla piazza sull’automobile in sosta con i fari accesi pronta a partire. Erano salve, per adesso!
L’avvocato non chiese neppure se erano effettivamente le persone che attendeva: era sicuro che fossero loro e le invitò a salire in fretta, perché era opportuno allontanarsi quanto prima dal centro cittadino. E così Margherita salì davanti, al fianco dell’autista, facendo prima sistemare Elvira sui sedili posteriori: ormai era lei, Margherita, che pensava a tutto anche alle necessità di Elvira che impaurita e stordita pendeva dalle sue labbra ed era per così dire la sua ombra. L’avvocato disse che aveva un salvacondotto del Comitato provinciale di liberazione nazionale e nel caso in cui avessero incontrato un posto di blocco, egli avrebbe garantito per loro dicendo che erano la sua segretaria e una sua nipote, sempre che qualcuno non le avesse riconosciute nella vera loro identità. A quel punto anche per lui sarebbero stati guai.
L’auto procedeva a un’andatura sostenuta e alle curve i fari ruotanti sembravano ombreggiare pericoli di cose e persone in agguato: d’improvviso svoltando ancora
si trovarono in mezzo a tante sagome in divisa che ondeggiavano e procedevano a zig zag verso di loro. L’avvocato si vide costretto a fermarsi e la luce intensa di una lampada li abbagliò. “Italian miss, segnorine, very nice, very good…come on, come on…..”. Erano soldati americani, la maggior parte ubriachi, che erano tutti usciti da un’osteria, uno di quei locali tipici nell’Italia settentrionale, anche nel dopoguerra e fino ad oggi, dove assolutamente non si mangia, ma si beve soltanto, e soltanto vino.
Aprirono lo sportello posteriore della macchina e uno afferrò per un braccio Elvira che incominciò a urlare, chiedendo aiuto a Margherita.
Quest’ultima con la sua fredda audacia estrasse in un attimo dallo zaino la sua pistola, afferrò il soldato di colore per il bavero della divisa e lo trasse a sé puntandogli l’arma alla bocca: “ Let her go or you are dead !”. Lasciala andare o sei morto !
Lo sguardo feroce e dominante di Margherita sicuramente non spaventò il soldato meno dell’arma…“Okay, okay…” disse il negro e si ritrasse fuori dall’abitacolo dopo aver mollato la ragazza. “Schizzi via... - disse Margherita all’avvocato che si era fermato senza spegnere il motore - gli altri si sposteranno… se non vogliono essere travolti”. L’avvocato obbedì anche perché la pistola adesso era puntata su lui... E già il varco si era aperto in mezzo a urla e gambe all’aria. I soldati incominciarono a sparare e i proiettili fischiavano mentre la loro scia oltrepassava l’auto in corsa. Presto si accorsero che dietro di loro in fondo in fondo al lungo viale, dopo aver più volte svoltato, incombevano due fari e il rumore di una jeep: li stavano inseguendo. Ma ormai si trovavano sulla strada statale che slargava sulla campagna e non fu difficile per l’avvocato seminarli, inoltrandosi in una strada secondaria e poi da lì in un’altra, sino a far perdere ogni traccia. Spenti i fari, rimasero tutti muti e silenziosi: l’imbarazzo per quanto accaduto e l’incertezza sulle decisioni da prendere, culminarono nella saggia scelta di riposare in macchina sino al sorgere del sole e si addormentarono.
All’alba per prima aprì gli occhi Margherita che svegliò molto cautamente Elvira e gli fece notare che si trovavano appena sotto la scarpata di una ferrovia, dove era fermo un treno trainato da una locomotiva a vapore con vetture e vagoni merci, indifferentemente tutti pieni zeppi di gente, uomini, donne, bambini e qualche consunta divisa.
L’avvocato era ancora sprofondato nel sonno e senza svegliarlo, dopo uno sguardo reciproco d’intesa, le ragazze sgattaiolarono fuori dalla macchina e di corsa raggiunsero appena in tempo il treno, che dopo essersi fermato in piena campagna, stava adesso ripartendo, in mezzo alle grida di giubilo della gente.
Qualcuno le aiutò a salire sugli scalini della vettura dandogli la mano, proprio già mentre le ruote si stavano muovendo e i carrelli fischiavano sulle rotaie. Non c’erano proprio posti liberi nella carrozza e si accontentarono di sedersi sul pavimento in un angolo ancora libero. Attirarono subito l’attenzione di alcuni giovanotti, particolarmente stimolati dal fascino e dallo sguardo particolarmente seducente di Elvira, che Margherita disapprovò suggerendole all’orecchio: “Attenzione!”. Da quanto sentivano in giro, il treno era diretto a Milano e quindi poteva andar bene. Alla stazione ci sarebbero stati senz’altro dei controlli, ma forse fino a quel momento potevano rilassarsi un po’. Un ragazzo, molto magro, Marco che ogni tanto incrociava lo sguardo, ora schivo, di Elvira comunque con grande compiacimento di quest’ultima, raccontava al suo interlocutore la sua storia recente: il primo gennaio 1945, mentre era lassù vicino al lago a ridosso delle Alpi, fu accerchiato vicino a casa dalle brigate nere. Gli piantarono una pistola nella schiena e poi lo portarono via. Arrestarono anche i suoi genitori dopo avere bruciato la loro casa. Erano feroci, anche perché due giorni prima, in un rastrellamento, avevano avuto pesanti perdite ed era anche morto il capo fascista che li comandava: un personaggio carismatico ma anche spietato, una “marcia su Roma”. Lo massacrarono di botte, anche in testa, prima di metterlo in prigione. Torturarono anche suo padre e sua madre, che avevano rispettivamente sessantacinque e sessanta anni. Lo portarono al poligono di tiro, per due volte, e credeva che lo fucilassero e invece si limitarono a torturarlo e a minacciarlo. Intanto il suo capo partigiano fece prigionieri cinque gerarchi fascisti della zona, poi informò i fascisti che se avessero ucciso Marco avrebbe mandato in città un carico di 500 teste di fascisti.
Verso la fine di marzo fu lasciato in libertà in cambio di ostaggi e ritornò alla brigata, lassù in fondo al pianoro, sfinito: da settantasei chili era ridotto a circa quaranta. Intanto i partigiani avevano vinto un’importante battaglia il 5 di aprile, cacciando via i fascisti imbestialiti che avevano tentato un ultimo rastrellamento in massa, rafforzati da SS tedesche e italiane, e che alla fine, sconfitti, erano dovuti fuggire fino oltre il ponte della ferrovia al piano, senza curarsi dei morti e dei feriti abbandonati sul terreno a decine. Durante aprile c’erano stati scioperi in molte fabbriche della provincia. Frattanto aumentavano le formazioni partigiane mentre, già dal giorno dieci, il Comitato provinciale di liberazione nazionale aveva affidato le trattative per la resa a un prelato della curia vescovile. Dopo il 25 aprile, esponenti di spicco della repubblica sociale erano stati fermati mentre tentavano l’espatrio, erano stati condannati a morte e il 27 aprile erano state eseguite le prime sentenze del tribunale del popolo. Presto sarebbero iniziati in Corte d’Assise i processi contro i tutti i collaborazionisti. Margherita ascoltava tutto con attenzione e tornava a preoccuparla il comportamento istintivamente un po’civettuolo di Elvira, troppo al centro dell’attenzione, perché ciò costituiva un rischio potenziale di coinvolgimento.
Giunti a una stazione secondaria di Milano, il treno si fermò e una squadra di partigiani col fazzoletto rosso intorno al collo, armati fin sopra i denti, comprese tre donne, salì nella carrozza avanti alla loro e arrestarono un uomo sulla sessantina che incominciò a urlare, contestando l’identità che gli era attribuita e protestando la sua innocenza.
“E’ una spia, torturatore di partigiani e delatore di ebrei: è responsabile della morte di tanti patrioti” – dichiarò una delle donne partigiane agli attoniti sbigottiti viaggiatori che chiedevano chi fosse. Margherita si avvicinò al finestrino e lo vide scendere dal treno bersagliato da calci e pugni di partigiani inferociti. Lo lasciarono in disparte da solo, fingendo quasi di dimenticarsi di lui: tentò la fuga e fu immediatamente freddato dai mitra impazienti. Lo aveva riconosciuto, era Lorenzo, un toscano, già collaboratore di Pavolini. Rimase turbata e pensò ad alta voce: “Che vigliacchi, l’hanno fatto apposta...”.
In quel momento si affacciò nel loro vagone una partigiana del gruppo con il mitra in mano e osservò un po’tutti, soffermandosi in particolare sulle due ragazze con uno sguardo alquanto interrogativo, ma fu distolta dal compagno Luca che la chiamò: “Clara, vieni, dobbiamo andare...”. Lei si ritrasse e scese dal treno che stava ripartendo verso la stazione centrale.
Prima dello stop alla stazione centrale, le due ragazze, approfittando del rallentamento del treno, erano già saltate giù e prendevano in corsa un altro convoglio in partenza che già era in movimento.
I viaggiatori di questo convoglio erano dei veri fantasmi, ebrei già internati in un campo di concentramento italiano in attesa di essere poi trasferiti in Germania, abbandonati dai loro carcerieri fascisti e tedeschi al momento della fuga e della resa e poi assistiti dalla Croce Rossa ed erano diretti a Bologna.
L’impatto psicologico fu tremendo: erano vere larve di uomini e di donne con i loro sguardi perduti nel vuoto, i volti emaciati e quasi increduli del presente. Elvira più sensibile, certo meno complessa e talvolta un po’ sconsiderata com’è tipico di tanti giovani, ma sincera, sussurrò a Margherita: “E questi erano i nostri nemici?”.
Per contro Margherita si girò verso di lei, la osservò a lungo, ma pensava ad altro, e non fece proprio alcun commento.
Trovarono posto in un angolo del vagone, si rannicchiarono alla ricerca di una posizione favorevole al riposo, mentre tutti i presenti continuavano a osservarle in silenzio.
Questa fissità degli sguardi, uniti talvolta a un ghigno del volto che assomigliava un sorriso, senza mai esserlo, era qualcosa di molto inquietamente per Elvira che per sua natura era tutta un crogiuolo di emozioni, pulsazioni, sensazioni, presentimenti: una vera babele del cuore. Margherita era più fredda e distaccata: per quanto potevano raggiungerla o colpirla fatti imprevisti o imprevedibili, l’adrenalina, il calore e il turbamento della carica emotiva non riuscivano, se non superficialmente, a scalfire quella coltre di ghiaccio e d’impermeabilità che era costitutiva della sua anima.
Trattandosi di un convoglio speciale riservato agli ebrei, non ci furono controlli alle stazioni e le ragazze poterono agevolmente raggiungere con i tempi di quella era la circolazione dei treni in quei momenti, la città di Reggio Emilia.
Ma qui le due ragazze scesero dal treno dalla parte opposta della normale discesa sotto la pensilina, dopo aver verificato che non ci fossero pericoli, perché Margherita pensava di poter trovare appoggio da quel lontano parente di cui la mamma parlava sempre e di cui ricordava l’indirizzo, un ricco proprietario terriero che possedeva una villa sontuosa, non distante dallo scalo ferroviario ed anche perché fra tanta gente muta e curiosa, che non faceva domande, aveva visto il rabbino parlottare con una specie di addetto alla sicurezza, senz’altro alludendo alla loro sconosciuta presenza nel treno. Superato il muro di cinta della stazione, s’incamminarono lungo la strada che costeggia per un po’la ferrovia: chiesero a una passante come raggiungere quella via e ottennero le più ampie e cortesi spiegazioni. Raggiunta la villa che si trovava in periferia ai limiti dell’abitato cittadino, trovarono aperto il cancello di ferro che introduceva al lungo viale circondato da una vegetazione lussureggiante e descritto da una lunga serie di pini mediterranei, e scorsero giù in fondo la villa. Tutto era tranquillo, silenzioso, ordinato, per cui sicuramente quel suo zio di un qualche grado di parentela (che la mamma aveva conosciuto durante un viaggio che aveva fatto in Sicilia prima della guerra) non era assente o almeno la villa non era abbandonata e il tenore di vita doveva essere abbastanza florido. Stavolta in Margherita, forse per la stanchezza, l’istinto e l’apparenza prevalsero sulla prudenza e sulla razionalità. Avrebbero potuto sondare la situazione nascondendosi in qualche angolo della villa e attendere un qualche movimento di persone che confermasse loro che tutto era normale, come previsto. Invece suonarono subito al portone tramite la campanella di bronzo che emise un forte suono. Prima silenzio assoluto, poi sentirono dei passi che si avvicinavano fino ad aprire la porta e...: “Chi siete, cosa volete?” - esclamò una vecchia signora dal piglio rozzo e un po’ autoritario, mentre alle spalle sentirono premere le canne di due fucili, che le spingevano dentro casa. Si trovarono subito di fronte un giovane armato dall’apparente età di 30-35 anni, con un fazzoletto rosso al collo, barba e berretto militare che ripeté la domanda: “Chi siete?”
Non avevano scelta migliore che dire un pezzo di verità e non c’era il tempo per pensarne un’altra.
“Questa villa è stata requisita dal comando di brigata a quel vecchio criminale fascista che ha affamato il popolo per lungo tempo e negli ultimi tempi faceva anche borsa nera insieme ai tedeschi: ma è stato punito così come meritava”.
“Siamo due studentesse dirette a Bologna e qui una nostra cugina, che vi lavorava come cameriera, ci aveva detto di chiedere di lei qualora fossimo capitate da queste parti per avere ospitalità…”.
Margherita preferì vantare un’amicizia proletaria piuttosto che una fatale parentela con un latifondista fascista. La vecchia signora che da tanto tempo prestava servizio nella villa, le guardò un po’ interdetta, sapendo che non si trattava della verità, ma tacque. Il comandante partigiano disse che troppa gente si nascondeva sotto mentite spoglie perché collaborazioniste o criminali, per cui il commissario politico che al momento era assente, le avrebbe interrogate al suo ritorno e per adesso dovevano attendere in una stanza sotto vigilanza armata. La guardia rimase fuori della porta della stanza che era collocata al piano terra della villa e c’era anche un grande finestrone, ma tragicamente anche una robusta inferriata.
Passò circa un’ora e la porta si aprì: comparve il partigiano di guardia che iniziò ad apostrofarle con disprezzo:
“Siete puttane fasciste; anche voi farete la fine degli altri affamatori del popolo. Però tu biondina, visto che è il tuo mestiere, potresti essere gentile con me e la tua amica potrebbe far contento il mio compagno Gianni che è qui pronto a fare la sua parte…!”. A questo punto Elvira ebbe, come si suole dire, un “lampo di genio” e decise da sola senza un momento di esitazione; anzi provocatoriamente (era seduta per terra) tirò su la gonna fino ai fianchi mettendo in mostra quelle due gambe stupende e ben tornite e rispose: “Ma certo, perché no?”. E lanciò un’occhiata a Margherita dicendole: “Ci stai anche tu, no?”. “Ma certamente – concordò Margherita - che nel frattempo, dato che non erano state perquisite, aveva sfilato la rivoltella dallo zaino. Elvira da perfetta attrice si lanciò (aveva scoperto anche il seno) in mezzo ai due giovani che ormai stavano in mezzo alla stanza e lei li abbracciava ambedue, mentre loro la palpavano sul seno e altrove. Margherita senza che se ne avvedessero, perché distratti dalle grazie e dall’iniziativa di Elvira, si collocò alle loro spalle e mentre Elvira colpiva quello alla sua destra con uno spaventoso calcio ai genitali, rafforzato dagli scarponi, facendolo stramazzare per terra sino a svenire, Margherita puntò la pistola alla schiena dell’altro dicendogli: “Se provi a fiatare, sei morto!”, mentre con l’altra mano aveva impugnato un badile che era lì pronto
appoggiato al muro e lo faceva letteralmente schiantare contro la testa di quest’ultimo, che cadde a terra perdendo conoscenza.
La porta era aperta e le armi degli uomini a disposizione: corsero con il cuore in gola lungo il corridoio nella direzione in cui dava su una porta esterna. Ma quando stavano per aprire la porta, Elvira si sentì afferrare un braccio: “No, no, seguitemi….” era la vecchia che le condusse nei sotterranei della villa, e giunti alla cantina prese una grossa chiave, aprì una porta cigolante, oltre la quale iniziava un viottolo erboso che costeggiava un muro; al termine di esso avrebbero dovuto scendere giù, guadando il torrente e poi proseguire verso sud in mezzo ai frutteti fino a raggiungere la via Emilia per Modena.
“Che Dio vi protegga, figliole…”
Ambedue ricambiarono con un rapido abbraccio e si allontanarono con i due mitra e gli zaini, mentre la pistola, un regalo del ministro Pavolini, era rimasta dentro la villa.

Trovarono rifugio in una capanna in mezzo ad un frutteto e lontana dalle strade di principale comunicazione e il mattino dopo, avvicinandosi cautamente alla via Emilia, videro un camion scoperto che ansimava nel tornante, guidato da una sola persona, un vecchio da una lunga barba bianca. Uscirono allo scoperto, con i mitra alla mano, e gli fecero segno di fermarsi: si fermò subito e le ragazze dissero di essere due studentesse che dalla casa di campagna volevano rientrare in città. E invece dei libri e della penna, avevano quei due attrezzi: “Salite pure, chiunque siate, non temo più nulla, bombardamenti, spari, soldati e partigiani, e neppure la morte. Può venire quando vuole, sono pronto”.
Il vecchio era molto saggio e distaccato: non aveva più paura di nulla e come tutte le persone molto anziane, pensava che ogni giorno che la Provvidenza gli concedeva, era in fondo un regalo in più, ma bisognava farne un buon uso e addormentarsi con serenità e giustizia. Le aveva scambiate per due partigiane e si raccomandava con loro perché non si servissero delle armi per sfogare odio e vendetta.
“Sognate, dopo il fascismo e la guerra, una società libera e democratica e volete, giustiziando, cancellare il passato, ma il fine non giustifica mai i mezzi, anzi i mezzi spesso prefigurano già i fini che si vogliono raggiungere...”
“Ma noi siamo soldatesse ausiliarie di Mussolini…” intervenne Elvira, ritenendo che ci fosse convergenza d’idee. Il vecchio le guardò con commiserazione e chiuse la conversazione: “Dio perdona loro, perché non sannoquello che hanno fatto….” Margherita, con uno sguardo indicativo, fece capire a Elvira la sua disapprovazione: non avrebbe dovuto lasciarsi andare… Da quel momento in poi non ci furono più scambi di parole. Poi arrivati nei pressi di Modena, imprevedibilmente dopo un curvone, incapparono, senza potervi in alcun modo sfuggire, in un posto di blocco di partigiani comunisti. Furono arrestate e portate al paese vicino: allontanandosi dal posto di blocco, videro che stavano perquisendo l’autocarro del vecchio e pensarono che di sicuro avrebbero anche trovato i due mitra che esse avevano lasciato nel camion. Furono chiuse in un garage in compagnia di altre undici ausiliarie che erano ancora in divisa e con loro
c’erano anche sei militi della GNR, provenienti tutti dal nord, che avevano condiviso il viaggio con le ausiliarie.
Sottoposte all’interrogatorio, Margherita ed Elvira, per salvarsi, dichiararono di essere prostitute che avevano lasciato la casa di tolleranza di Reggio Emilia per seguire dei soldati, che poi non avevano voluto più saperne di loro.
Il capo dei partigiani disse: “Va bene, allora ci occuperemo più tardi di voi!” Ma furono costrette a seguire le altre donne e i militi fino alla piazza del paese, dove si trovarono sommerse dalle urla e dagli insulti della folla che chiedeva giustizia sommaria.
Furono schierati tutti in fila davanti al muro con le mani legate, ad eccezione di Margherita ed Elvira, che erano rimaste molto in disparte, mentre un plotone improvvisato si allineava di fronte ai condannati.
Fu a quel punto che una delle ausiliarie, Adele, si mise a urlare scongiurando i “giustizieri” di salvare sua sorella Maria, che era nel gruppo, perché potesse aver cura della loro madre, cieca e sola. Maria fu afferrata da un partigiano e spinta da parte.
Subito dopo il plotone aprì il fuoco, ma vedendo la sorella cadere assieme agli altri, Maria gridò per la disperazione con quanto fiato aveva in gola. Per farla tacere, un partigiano le scaricò il mitra addosso, freddando anche lei. Intanto, una scena irreale, spaventosa, stava accadendo. L’ausiliaria Anita, che era rimasta soltanto ferita, si alzò dal mucchio sanguinante, avanzando verso i suoi assassini. Le fu dato il colpo di grazia.
Tra le ausiliarie c’erano altre due sorelle, Ida e Bianca. Anch’esse erano rimaste soltanto ferite, e Bianca urlava: “Uccidetemi! Uccidetemi!”. Mentre i partigiani si preparavano a finirle, si precipitò davanti a loro padre Paolo del vicino convento dei Cappuccini. “No” disse “non lo fate”. Stanno morendo. Andate via. Le assisterò io sino alla fine”. I “giustizieri” lo lasciarono trascinare le tre sventurate all’interno del convento, anche perché erano distratti e impegnati a gustarsi nei minimi particolari l’agonia di un milite che, meno esposto ai colpi dei carnefici, non era morto sul colpo, ma si lagnava debolmente e, annaspando con le mani, cercava di sciogliersi dalle funi che lo tenevano legato agli altri del gruppo, e, mugolando, suscitava l’ilarità di chi lo aveva appena colpito, e ora continuava a colpirlo con randellate sorde che gli frantumavano ossa e cranio.
La distrazione dei partigiani fu provvidenziale per le nostre ragazze: Margherita lanciò uno sguardo d’intesa a Elvira, che captava sempre al volo le intenzioni dell’amica, e mentre la folla spingeva e le avvolgeva, si eclissarono letteralmente in mezzo alla gente, allontanandosi prima lentamente e discretamente e poi, abbastanza lontane e fuori dall’assembramento, iniziarono una corsa spasmodica e disperata lungo i vicoli del centro storico, finché raggiunsero la porta medioevale, che oltrepassarono, nascondendosi in mezzo ad un campo di grano.
La fuga era stata davvero miracolosa, ma era meglio non approfittarsi di tanta fortuna: bisognava continuare il viaggio verso Bologna lungo percorsi di campagna inusitati, approfittando ogni tanto dell’aiuto e dell’ospitalità di qualche famiglia contadina. Vagarono così per qualche giorno nutrendosi dei frutti della campagna. Si spostarono un po’ sulle alture e videro scorrere alla loro destra la città di Modena, finché, scendendo, videro al piano una casetta rosa in mezzo al verde.
Percorsero il lungo viottolo che conduceva al casolare: a Margherita sembrò di rivedere la casetta natia in Sicilia bombardata dagli angloamericani. Giunti nell’aia un vecchio contadino e una giovane donna incinta sembravano attenderle. Una donna anziana invece stava affacciata alla finestra: proiettò in quella donna l’immagine di sua madre scomparsa, sorridente e quindi beneaugurante.
Elvira parlò per prima: “Vorremmo mangiare un boccone...”
”Venite in casa”, rispose il vecchio.
Nessuno chiese loro chi fossero e da dove venissero: anzi i due coniugi anziani invitarono le ragazze a trattenersi per qualche giorno, per riposarsi, mentre la giovane donna incinta al sesto mese raccontò loro la sua storia.
Assunta, così si chiamava, veniva da Piacenza, dove a metà aprile, suo marito, un membro del CLN locale era stato arrestato e giustiziato dai brigatisti neri e voleva raggiungere i suoi genitori a Bologna. Arrivata qualche giorno prima, a tarda sera, fortunosamente alla stazione di Modena, aveva chiesto alloggio a un albergo vicino, ma le era stato rifiutato perché priva di documenti. Fra l’altro le fu detto che tutte le notti i partigiani passavano a controllare i documenti dei clienti e verificavano l’occupazione delle camere e quindi rischiavano molto ad accoglierla.
Fino a quel momento il suo stato interessante era stato un valido lasciapassare e tutti l’avevano rispettata e lasciata andare. Allora un avventore dell’albergo s’incaricò di accompagnarla a un centro di accoglienza delle suore francescane che non era molto distante, ma durante il tragitto, nel buio della notte in una strada stretta e deserta, furono aggrediti da quattro giovinastri che immobilizzarono l’uomo e portarono via la donna in un camioncino. Giunti in mezzo alla campagna, l’avevano violentata ripetutamente e abbandonata a un crocevia, dopo averle anche assestato dei calci all’addome. Per questo
temeva di perdere il figlio. Fu raccolta da quel contadino che la portò a casa e la moglie si occupò di lei. Margherita ed Elvira rimasero per alcuni giorni nel casolare, in attesa di riprendere il viaggio per Bologna, finché avvenne un fatto tragico e del tutto imprevisto.
Una notte verso le 23 il contadino vide passare attraverso la strada che dal suo pozzo conduceva là nella campagna oltre il ponte della ferrovia, terminando nei campi incolti, una corriera piena di gente, ove sembrava ci fossero anche donne e bambini, preceduta e seguita da due motociclette guidate da armati di mitra. Uno di essi lo vide nell’aia e lo raggiunse in motocicletta chiedendogli dei badili. Glieli consegnò e vennero anche altri a prenderli e se ne andarono, dopo aver ben visto in faccia il vecchio, illuminandolo con una lampada. La corriera tornò indietro dopo un’ora e sembrava vuota; poi ripassò, ancora dopo, piena di nuovo carico umano. Il giorno dopo una pattuglia di partigiani, composta da due uomini e da una donna, entrarono nell’aia del casolare. Chiesero al vecchio se aveva del vino e vollero scendere nelle cantine, dove nel frattempo si erano nascoste le due ragazze, pensando di essere al sicuro. “E voi che fate qui? - chiese l’uomo scoprendole rannicchiate in un angolo, dietro una botte. “Siete fasciste, eh... avanti, vi portiamo al comando”. “Ma ammazziamole qui queste puttane”, disse la donna. “No, disse l’uomo, le portiamo con noi. Sono io che comando”. “Ma guarda un po’come ti sei intenerito: ti piacciono queste troie, quale di più, la bionda o la mora?”.E scoprì loro il petto: “Sono fatte bene. eh? Sai quanta sifilide avranno accumulato con i neri…”. “Se tu provi a fartele, ti cavo gli occhi”, replicò la donna con evidente gelosia. “E va bene - concluse la donna - uhm, che capelli.” Disse prima lisciando e poi tirando violentemente i capelli di Elvira: “Daremo lavoro al barbiere…”Uscendo, videro il vecchio e subito lo aggredirono spingendolo verso il muro di una capanna: “Le nascondevi, eh… Preparati a morire”.
“Madonnina mia, aiutatemi” - esclamò il vecchio.
Uscì dal fienile la donna incinta: “No, non lo uccidete; è una brava persona… Io sono la moglie di un comandante partigiano e...” Non ebbe il tempo di finire perché fu freddata da una raffica e si accasciò, con la mano nella pancia, quasi a voler proteggere il bambino che aveva in grembo.
Poi uno esclamò rivolto al vecchio: “Niente più Cristi, né Madonne, né padroni”, e scaricò il mitra sul contadino.
Le due ragazze caricate a calci in una macchina, videro la moglie del contadino che urlava e piangeva da una delle finestre del casolare. “Povera mamma - pensò Margherita proiettando di nuovo in lei l’immagine e il ricordo della propria mamma - me l’hanno ammazzata due volte!”
Giunti al municipio del paese, dove subito dopo la liberazione si era insediato il CLN locale che come primo atto “democratico e libertario” aveva condannato a morte il podestà e il segretario del fascio repubblicano con immediata esecuzione dei medesimi, al loro arrivo i due partigiani e la donna, con le loro prede succulente, dovettero constatare che tutti i poteri erano passati a un maggiore inglese e al suo battaglione che aveva preso possesso del paese: i soldati avevano anche requisito diverse ville e palazzi, mentre tre carri armati stazionavano nella piazza centrale.
Non poterono fare a meno di consegnare le due donne agli inglesi, con relativo sollievo e soddisfazione da parte della partigiana, insofferente di fronte alle insistenti attenzioni del suo compagno e comandante verso le due prigioniere.
I partigiani erano sconvolti: temevano anche che gli alleati li disarmassero e questo provocava in loro rabbia, creava delusione e malumori.
Il maggiore interrogò le ragazze e le rassicurò perché garantiva per la loro incolumità: nel caso in cui avessero confessato di aver aderito alla “sedicente repubblica sociale italiana”, sarebbero state trasferite in uno dei campi di concentramento femminile che erano apprestati in Toscana, Coltano, Casellina o Scandicci e avrebbero rischiato sanzioni di altro genere soltanto se fossero state giudicate colpevoli di gravi crimini.
L’interrogatorio incalzante produsse alla fine dei risultati: Elvira confessò il minimo che poteva confessare e “tutto considerato era meglio così” - ne convenne anche Margherita.
Il maggiore dette disposizioni al sergente perché le due ragazze, “very nice, beautiful girls”, fossero accompagnate al centro di raggruppamento situato alla periferia di Bologna.
“I hope to revise it, miss! (Spero di rivederla ancora, signorina !)” - così il maggiore salutò Elvira in inglese. Margherita le tradusse il concetto con un certo compiacimento, che era complicità con l’amica, ma anche apprezzamento partecipato e condivisione per un fascino che non la lasciava insensibile.
Dopo alcuni giorni di permanenza al Centro di raggruppamento di Bologna, sulle rive del fiume Reno, arrivò il giorno di partire per la destinazione finale. Il viaggio da Bologna, ridotta a un cumulo di macerie, verso il campo di concentramento in Toscana fu abbastanza avventuroso su grossi camion militari scoperti, guidati in modo alquanto spericolato da baldi negroni in divisa. Non sfuggì a Elvira che era veramente un bel ragazzo quel soldato americano che le tirava su aiutandole gentilmente a salire sul camion, mentre in ogni spostamento i partigiani rossi stavano pronti a ogni angolo delle strade per prenderle a sassate.
Mentre Margherita, com’era suo stile, se ne stava un po’ in disparte, Elvira solidarizzava con tutti, camerati e camerate. Nel risalire i tornanti dell’Appennino, i prigionieri si abbandonarono a canti “patriottici”, dei quali agli alleati non importava assolutamente nulla se erano d’intonazione fascista, ma comunque evitavano di cantare quando attraversavano qualche paese.

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