venerdì 29 aprile 2011

L'onore e la passione (IV parte)

Capitolo 5°
Elsa e Sandra di nuovo insieme, ma rivali per Damiano

Elsa corse incontro a Damiano e lo abbracciò con passione: negli occhi di Damiano c’erano sorpresa e tenerezza e un atteggiamento riflessivo, riservato che ad Elsa parve soltanto distacco.
Erano due persone molto diverse, per età (nel 1945 Elsa aveva 19 anni, mentre Damiano ne aveva già 37), per progetti diversi destinati tuttavia a fondersi in un qualche modo..). Questa tensione del diverso alimentava l’innamoramento di Elsa che cercava comunque il senso del proprio destino.
Caduto l’ideale politico che le dava un senso di appartenenza, cercava in Damiano quella diversità che la attraeva perché le apriva nuovi orizzonti di vita, ma nello stesso tempo si risvegliavano in questa congiunzione fisica le ansie e i meccanismi di difesa.
Si congedò dalle suore senza chiedere a Damiano dove e perché andare: lui sapeva e non era altrettanto importante per lei sapere cosa bisognava fare, ma l’essenziale era farlo con lui. La superiora lanciò un ultimo saluto: “Torna a farci visita, Damiano!”. Anzi:”Tornate…”Si corresse.
Non mancò in Damiano un muto disappunto: egli infatti era tornato per mantenere una promessa fatta e per dare alla ragazza una possibilità, di vivere e di riscattarsi. Null’altro.

“Verrai con me a Parma, dove stiamo organizzando un centro di assistenza agli sfollati e di smistamento di persone provenienti dal Nord Italia ed Europa. Insieme a me hai un lasciapassare senza condizioni come mia segretaria e collaboratrice. Là avrai modo di conoscere tanta gente con cui potrai confrontarti e riflettere”.
Fu un viaggio lungo e pieno di problemi e di insidie: non c’era coordinamento fra le tante armate o divisioni di partigiani (bianchi cattolici, azzurri di Giustizia e Libertà, verdi azionisti, rossi garibaldini) per cui ogni posto di blocco (ed erano numerosissimi) diventava un esame e c’era un potenziale rischio personale, alimentati dal sospetto reciproco.
Si parlava infatti di improvvisati nuclei partigiani senza storia e sconosciuti fino al giorno precedente la liberazione, che in realtà erano fascisti irriducibili travestiti da partigiani: in fondo bastava impugnare un arma e legarsi un fazzoletto rosso al collo ( il rosso spaventava di più) e senza scrupoli tentare proditoriamente un’ultima vendetta.

Giunsero alla fine nei pressi di una stazione ferroviaria alla periferia della città, dove era stato allestito un campo interalleato con una sezione organizzativa dei partigiani bianchi: tutti conoscevano Damiano e lo salutavano con deferenza. “Damiano, dove hai conosciuto quella maschietta ?”(alludendo ai capelli che erano ricresciuti ma non abbastanza).
Lui tirava diritto come era suo solito fare, discreto, serio e serioso, responsabile e disciplinato, di sani principi morali e religiosi: “Vieni Elsa, andiamo nel mio ufficio”. Si trattava di una baracca di legno e l’ufficio era al piano terra in fondo ad un lungo corridoio. Camminavano mantenendo lo stesso passo ed Elsa era orgogliosa di stare al fianco di un così prestigioso personaggio.
Ma nel momento in cui stavano entrando nella stanza, improvvisamente la porta si aprì e ne uscì una bella ragazza bionda con delle carte in mano, alla quale Damiano presentò la sua protetta: “Sandra, questa è Elsa, è sfollata ed ha bisogno di una sistemazione nel campo”. “Elsa, questa è Sandra la mia alter ego!”.

Le due ex amiche ed ex compagne di scuola si riconobbero, ma mantennero sul momento ciascuna delle due il segreto, anche se l’emozione e la sorpresa tolsero loro il respiro, mentre gli occhi rimanevano ben spalancati.

Fu Sandra a chiedere per prima a Damiano quale fossero le circostanze che l’avevano fatti incontrare e lo fece con una certa arroganza tanto che Damiano le rispose abbastanza freddamente che aveva già dato la risposta necessaria. Era una ragazza sfollata in difficoltà e bisognosa di aiuto. Non c’era altro di importante che potesse interessarla.

Era evidentissimo che Sandra teneva molto a Damiano e vedendolo determinato, ebbe un forte scatto di gelosia. “Forse tu non sai che è una fascista repubblichina. Eravamo a scuola insieme e nel 1943 lei cocciuta volle partire per il Nord insieme ai fascisti toscani fuorusciti”.
“Lo so bene” – rispose Damiano- “E tu terrai il segreto: è un ordine oltre che un mio desiderio che tu non contrasterai assolutamente”. La guardò intensamente e…”So che tu non lo farai!”. E poi rivolto ad Elsa: “Vi conoscevate?”. “Sì” rispose Elsa e non aggiunse altro.

Capitolo 6°
Margherita, Elvira: la prigionia

La carovana partita da Bologna raggiunse Pistoia e quindi proseguì per Lucca e Pisa. Poi oltrepassata Pisa, in vista del mare, raggiunsero il campo di concentramento di Coltano, circondato dai pini marittimi, dove, però si rifiutarono di accoglierle perché già sovraccarichi di prigionieri. E qui, a Coltano, a malincuore le ragazze dettero l’addio ai camerati maschi che le avevano accompagnate nel viaggio e la colonna tornò indietro verso Firenze.
Avvicinandosi al capoluogo toscano, Margherita vedeva in lontananza la città, dove aveva abitato e dove avrebbe voluto ancora vivere per sempre: il richiamo della Sicilia aveva un piccolo spazio nel suo cuore, unicamente perché non conosceva la sorte del padre, andato volontario in Russia e che forse poteva tornare.
Elvira era già molto addolorata per essere arrivata a pochi chilometri dal suo paese, che aveva anche intravisto in lontananza, quando era vicino a Bologna, ma, essendo ormai in condizioni di prigionia, non aveva potuto far niente per andare a riabbracciare i genitori di cui non poteva sapere più nulla.
Il viaggio terminò verso le ore venti a Scandicci, alla caserma dei “Lupi di Toscana” trasformata nel campo di concentramento denominato U. S. P. W. E. 334. Il campo di Scandicci era composto da diversi lager e reticolati e sulle torrette di guardia incombevano le mitragliatrici, ma le prigioniere poterono sistemarsi in baracche di legno o di metallo. Là dentro si parlava un mucchio di lingue, vi erano donne di tutte le nazionalità e di tutti i partiti. Le italiane erano circa 300, tra ausiliarie e civili, ritenute in un qualche modo coinvolte con il regime, oltre alle tedesche che erano numerose, forse il doppio.
Ma nel campo erano recluse anche alcune partigiane (“che avevano mai combinato?”), che ricevevano un trattamento leggermente migliore rispetto alle fasciste. Queste ultime, tuttavia, avendo pagato non con la vita, ma con il campo di concentramento, le conseguenze della disfatta, potevano sicuramente considerarsi fortunate rispetto a tante altre che, fuori, erano state uccise dai partigiani.
Il problema fondamentale era la scarsità del cibo e per qualsiasi cosa dovevano fare la coda cinque o sei volte il giorno, si dormiva su “castelli” di legno a tre piani, si mangiava la minestra con lo zucchero e si beveva il caffelatte amaro, ma non mancavano talvolta dei bei tocchi di pane bianco, anche se normalmente le razioni di pane erano sempre ridotte ai minimi termini. Essere prigioniere dietro il filo spinato era stata all’inizio un’esperienza del tutto nuova e spesso angosciosa e umiliante per le ragazze : poi la vita da “prisoner of war” alla fine era divenuta abituale… e presentava qualche aspetto interessante, che forse da vecchie avrebbero ricordato con quella nostalgia tipica che è una vernice del tempo che trasfigura i ricordi.
Giorno dopo giorno, gli americani si mostravano individualmente sempre più generosi con loro, mantenendole a scatolette e a sigarette: quest’ultime talvolta costituivano una preziosa merce di scambio con i viveri. Erano in tante e non mancavano i pettegolezzi, le solenni bisticciate e i puntuali rimproveri dei vigilanti in ogni occasione, se non qualche punizione, anche molto severa.
Domenica 24 giugno 1945 fu una giornata davvero sensazionale: Elvira festeggiò il suo compleanno dietro i reticolati, ma con tanta allegria, ballo e orchestrina nella grande piazza. Quel giorno ci fu anche una distribuzione di arance e di frittelle e la sera un grande spettacolo di varietà offerto dalle camerate tedesche.
Nel pomeriggio Elvira volle anche prendere il sole, come facevano le altre, in costume semi adamitico e lo fece in modo che qualcuno si accorgesse di lei, anzi più di uno e, la sera, alle sette, durante la Messa al campo, celebrata da un cappellano militare che aveva fatto tutte le campagne di guerra dal 1940 fino all’adesione alla RSI, fu cantata la “preghiera del legionario” con grande commozione generale.
Erano incominciati gli interrogatori delle cosiddette “militari” e Margherita temeva che fossero stati acquisiti dati negativi nei suoi confronti, anche se la cosa era molto improbabile.
Il prossimo turno è…
L’interrogatorio fu semplicissimo e sbrigativo: tutto bene. E così fu anche per Elvira.
“E pensare che - commentarono fra loro – ne abbiamo fatte!”.
“Ma poi questi americani non sono tanto malvagi” - aggiunse Elvira - “e alcuni sono veramente simpatici”. Il capitano statunitense, infatti, non aveva occhi che per lei e la cosa per Elvira era normalissima, perché tutti s’innamoravano di lei e, come si suole dire, “ci provavano”. Ma maliziosamente si era accorta (e da un lato la cosa la imbarazzava, dall’altro la gratificava) che il feeling con quell’ufficiale infastidiva un po’ Margherita e allora Elvira ci provava gusto a giocare un po’ con i suoi turbamenti.
Nel pomeriggio del 27 luglio, ci fu un duro scontro tra le fasciste e le partigiane risoltosi senza spargimento di sangue: “casus belli” una bandiera rossa che una partigiana aveva cucito ed esibiva in modo provocatorio. Ne era seguito uno scontro fisico molto violento in una camerata e un assedio in piena regola alla partigiana barricata al terzo piano di un letto a castello, che fu liberata dall’intervento dei sorveglianti. Come punizione fu sospeso a tutte il cibo per tre giorni. Riuscirono a “sopravvivere” solo perché ognuna delle camerate tedesche, che dividevano il lager con loro nell’altra ala, rinunciò a metà della propria razione per tutti e tre i giorni.
Restarono anche consegnate nelle camerate per lo stesso periodo, ma poiché un gruppo si mise a cantare, allora le fecero uscire e le tennero circa due ore in piedi sull’attenti sotto il sole di luglio perché volevano vedere se quelle “fortezze di Mussolini” fossero state in grado di resistere. Resistettero, ma fu dura.
Era opinione di molte che i soldati statunitensi non perdonavano loro il fatto di non riuscire a piegarle, togliendo loro la dignità. Insomma ancora una questione di onore.
Pensavano appunto che fosse intollerabile per loro che un pugno di donne non si piegasse e non chiedesse pietà, anzi riaffermasse la convinzione della scelta fatta anche dinanzi alla minaccia di deportazione nei campi di cotone africani.
Le volevano vedere piangenti e imploranti, ma questa soddisfazione non l’avrebbero mai avuta. Ecco perché – così pensavano - erano sottoposte da parte di alcuni ufficiali e sottufficiali alleati a una tortura morale gratuita, che consisteva nel non perdere occasione per offendere la loro italianità.
Spesso la mattina, all’adunata che precedeva e seguiva la “conta”, dalla bocca del sottufficiale sorvegliante uscivano insulti contro le donne italiane, che, secondo lui, erano tutte puttane perché andavano a letto perfino con i negri. Purtroppo poi col tempo loro stesse si sarebbero accorte che in parte aveva ragione.

Una volta non si limitò a offendere le donne italiane come il solito, ma accusò i soldati italiani di vigliaccheria e di essere più pronti a scappare che a combattere. Quel giudizio per quanto superficiale e indiscriminato era tipico di molti americani e coinvolgeva tutti gli italiani a prescindere dalla scelta che avevano fatto.
Ma siccome per le prigioniere i soldati italiani erano per eccellenza quelli della RSI, una s’incaricò di rispondere che quelli che chiamavano “vigliacchi” avevano tenuto inchiodato un esercito cento volte superiore per mesi e mesi combattendo in pratica a mani nude contro i carri armati. Tale intervento caricò emotivamente tutte le altre e l’offesa sembrò tanto intollerabile che si avventarono contro di lui... Scoppiò un putiferio: il sergente dette ordine alle torrette di guardia di scappucciare le mitragliatrici, chiamò gli MP, e solo allora tornò la calma. Sei o sette prigioniere furono mandate in camera di punizione e tutte le altre a mezza razione per cinque giorni.
Elvira aveva scritto a casa e attendeva con ansia e speranzosa una risposta. E fu Margherita a trattenerla dalla protesta, quando un giorno, alla solita adunata, il sergente disse che era arrivato per loro un sacco pieno di posta, ma siccome si erano comportate male, lo aveva bruciato.
Era venuto a far visita alle partigiane recluse un cappellano militare che aveva fatto parte di una brigata partigiana e che portava un fazzoletto bianco al collo. Maddalena, ausiliaria di Alessandria, era una vera pasionaria del Duce e spesso, sfinita e dolorante nel fisico e nell’anima per le precarie condizioni di salute, la fame, la totale ignoranza sulla sorte della sua famiglia, era in uno stato di confusione onirica: vedeva come imminente una riscossa dell’universo fascista, colonne in marcia, soluzione finale con armi speciali, ecc., ecc.
Quando il cappellano partigiano ebbe la “faccia tosta” di dire che le fasciste dovevano ringraziare Iddio di poter scontare, con le sofferenze e le privazioni del lager, il male che avevano commesso e i peccati di cui si erano macchiate (“perché, in definitiva, il male se lo erano meritato”), tutte rimasero ammutolite, finché cominciò a levarsi un mormorio alquanto minaccioso.
Maddalena non si trattenne dall’inveire contro il prete, “cattocomunista, sionista, traditore della patria” e così via ma per evitare l’intervento dei sorveglianti, fu frenata e ricondotta alla calma da Margherita che, peraltro, spiegò all’interlocutore la vera condizione della ragazza. Margherita s’intrattenne a parlare con lui in modo molto formale e diplomatico e si accorse che quel prete “un po’ sovversivo” continuava a guardarla finché le chiese se mai lei avesse operato a (…).
Margherita senza indugi negò risolutamente e lo salutò allontanandosi in fretta da lui. Ma il prete aveva ragione e ne aveva tanta che Margherita, sempre fredda e padrona dei propri riflessi, fu percorsa da un tremore intenso, che diceva tutto sulla paura di essere stata riconosciuta: quella notte di Natale del 1943, sulle alture dell’Appennino tosco-romagnolo, in quel paesino semidiroccato a caccia di ebrei insieme alle SS tedesche, cui faceva da interprete, avevano bussato anche a quella canonica e avevano perquisito tutto, non avevano trovato quello che cercavano, ma certe stampe clandestine che Margherita comunque aveva tradotto, molto liberamente, al tenente tedesco, per cui fortunatamente non ci furono conseguenze.
Elvira aveva poi recuperato una grande voglia di vivere, di cantare e di fare confusione e aveva fatto amicizia con le “balilline” (così chiamate perché giovanissime, talvolta avevano meno di sedici anni) e le “tripoline” (che erano le figlie dei coloni italiani in Libia). Nascevano anche dei flirts con i ragazzi del lager accanto a quello delle ragazze e le guardie le sorprendevano mentre lanciavano dei bigliettini oltre il reticolato.
Vi era anche una grande rimessa, dove lavoravano prigionieri a riparare macchine. C’era di bello che s’intrecciavano idilli e di brutto che, fioccavano anche nuove punizioni...
E così rischiarono tutte, per punizione, di perdere l’occasione delle frittelle in abbondanza elargite in occasione dell’“indipendence day” (4 luglio).
Margherita invece familiarizzava molto con le tedesche e particolarmente con Gertrude, un’intellettuale teorica della razza e intima amica di Goebbels. Parlavano di storia, di letteratura ariana, di costume e di ruolo femminile. Poi fu annunciato alle tedesche il loro rimpatrio. E molte italiane ne furono contente, anche perché non le potevano soffrire.
Gertrude non era tuttavia molto contenta di tornare in patria, perché avrebbe visto lo sfacelo di una nazione distrutta, un popolo ridotto in schiavitù, forse per sempre, e molto probabilmente non avrebbe trovato più né la casa né la famiglia (genitori e fratelli).
Partì come le altre in divisa, con i bei pantaloni (che tanto Margherita invidiava) e gli zaini carichi fino all’inverosimile...
Ambedue le amazzoni giunoniche (Margherita e Gertrude) non avrebbero mai dimenticato le affinità culturali, spirituali e caratteriali che le avevano legate durante la prigionia e mentre il gruppo partiva, i commoventi ripetuti addii... o più speranzosi “auf
wiedersehen”.
Alle finestre dell’ospedale, si vedevano invece feriti italiani e tedeschi: uno suonava l’armonica a bocca, un altro cantava con una bella voce da tenore...
Per loro le ragazze cantavano la sera canzoni “patriottiche”, e scambiavano qualche dolce con qualche pacchetto di tabacco da farglielo arrivare tramite il cappellano che di
tanto in tanto faceva loro visita. Quando fu loro fornita una radio che chiedevano da lungo tempo, ascoltando Radio Firenze o altre stazioni dove riuscivano a sintonizzarsi, si accorsero da notizie di attualità che i tempi erano duri per tutti, anche fuori, anche per quelli che avevano tanto atteso i “liberatori”.
Ma come se la cavavano adesso fuori le camerate che si erano salvate dalla prigionia ed erano sopravvissute ai giorni più tremendi? Questo era il dilemma: le prigioniere desideravano tutte di uscire, ma cosa le aspettava, una volta uscite, tornando al paese, al quartiere, sia pure riscaldate dagli affetti familiari? Forse erano addirittura più sicure nella prigionia.
Ma non sapevano che anche i tempi mutavano in fretta…
In compenso la musica che era trasmessa, in prevalenza americana, era un genere che non dispiaceva, anche se c’era un po’ di pudore e ritrosia ad ammetterlo.
Nessuna notizia da casa per Elvira, e così per molte altre. Eppure Elvira continuava a scrivere alla mamma su quelle strane lettere che passavano, di una carta speciale.
Vedevano spesso, la sera, passare davanti alle finestre automezzi americani, con sopra giovani ragazze fiorentine, che ridevano sguaiatamente ed erano molto truccate.
Da dietro i reticolati, i prigionieri le insultavano: era enorme il disprezzo che provavano per quelle “vendute” al nemico, e per le ragazze che condividevano la stessa fede nostalgica, era uno spettacolo odioso.
Ma anche quella era fame… soprattutto, ed anche una gran voglia di vivere e di godere…
Per alcune era già molto grave per un’ausiliaria accennare a un qualche atteggiamento civettuolo o tipicamente femminile con gli americani, perché le vedevano anche i feriti, “i nostri”, dicevano, dall’ospedale o dagli altri reticolati.
E molte glielo avevano fatto notare a Elvira, anche con veemenza, per quei suoi eccessi poco meditati, quei suoi toni sopra le righe... Ma non la conoscevano: soltanto Margherita poteva dare il giusto peso e senso ai comportamenti di Elvira, perché “lei era fatta della stessa stoffa di cui erano fatti i suoi sogni…”
Poi un mattino, grande adunata. Furono divise in due gruppi, che sarebbero stati gli scaglioni che partivano prima e dopo.
Margherita, Elvira e le “balilline” stavano nel secondo, perché nel primo c’erano quelle che avevano dichiarato di essersi arruolate nel servizio ausiliario per lo stipendio. Nel frattempo verso mezzogiorno, su tre camion, erano partite quelle già chiamate il giorno precedente: tutte erano quasi convinte di tornare a casa, quantunque non avessero loro riconsegnato né soldi né orologi. Invece le avevano portate alle carceri e consegnate agli italiani... “Altro che libertà! Povere ragazze erano partite così contente, e invece...” .
Ma alla fine avrebbero fatto anche loro, tutte, la stessa fine?
Alcune ricordando i partigiani, avevano un vero terrore angoscioso di ritornare nelle mani degli italiani, per la paura che i Comitati di liberazione nazionale tornassero a interessarsi di loro, ma ciononostante da qualche giorno non si faceva altro che parlare di partenza.
Poi la notizia, contrariamente alle altre volte, fu ufficiale. “Andremo a Firenze - annunciò Alba, la reporter del gruppo accreditata nelle alte sfere - in una scuola o accademia, non ho ben capito. Hanno già destinato le camere, non si aspetta che l’ordine”.
Il giorno dopo il capitano statunitense lesse l’elenco delle persone trasferite, le salutò con un insistente ritorno di sguardi su Elvira e invitò tutte a preparare la roba da portare via, cercando di fare la minore confusionepossibile.
E così il 12 settembre 1945 tutte furono trasferite nei locali della Nettezza Urbana a Casellina e consegnate agli italiani, ma si trattava di carabinieri congiunti a polizia militare alleata. Vi arrivarono in serata al nuovo campo, che poi non era un campo, bensì un grande edificio in muratura, con tante macerie tutto intorno.
Trasferendosi da Scandicci a Casellina, durante il breve viaggio in camion, riuscirono a vedere un po’ di vita libera, persino un tram e delle biciclette...
Nel nuovo campo era ancora tutto da organizzare, non c’era acqua e i gabinetti non funzionavano ancora.
Il mattino dopo, ispezione mista di americani e italiani. Un tenente e un capitano dei Carabinieri dettero il benvenuto. Dissero che dovevano passare sotto la loro “protezione’’.
Per via delle razioni sempre più esigue, alcune iniziavano a rimpiangere i “pasti abbondanti” degli americani: il pane che nei momenti più felici veniva tagliato in quattro parti, adesso era tagliato in sei e talvolta in otto parti. Ma finalmente tornavano a mangiare sui tavoli: lusso al quale si erano disabituate.
Poi una sera ci fu molto fermento perché era arrivato un biglietto in cui i comunisti del paese minacciavano un assalto con lanci di bombe a mano. E ne seguì un altro ancora. Ma la fame era sempre il problema principale, con qualche eccezione quando i parenti e gli amici venivano a trovare qualche ragazza che condivideva con le altre nei limiti del possibile e... della reciproca simpatia e affinità.
La mamma di Loredana era venuta a trovarla e tutte erano felici per lei. Aveva portato del pane (il buon pane casalingo), dell’uva e un coniglio arrosto. Fecero un pranzetto memorabile: c’era persino del vino nuovo e delle noci.
Da alcune persone che vennero a trovarle, seppero che i giornali pubblicavano la notizia che erano liberati oltre trentamila prigionieri di Coltano. E per molte, fra cui Elvira, ma non ancora Margherita, venne il giorno della libertà.
Quel mattino in cui Elvira fu liberata, continuavano a passare davanti all’edificio camion carichi di comunisti con grandi bandiere rosse. Naturalmente quando passavano, si scatenava un immenso coro di urla varie e di fischi. Correvano all’impazzata e qualcuno tornava indietro a protestare per le urla e per i fischi, mentre i carabinieri e la ronda MIG stavano pronti con i moschetti e le mitragliatrici per impedire eventuali assalti dall’esterno.
Margherita attendeva di veder uscire la sua grande amica dal portone principale: non c’era stato un addio ma un arrivederci, perché avevano deciso di rivedersi comunque. Si erano scambiati indirizzi ed Elvira dopo aver raggiunto la sua famiglia, sarebbe tornata a visitare Margherita subito dopo, qualora fosse stata ancora reclusa.
Per quanto commovente, il distacco non era stato drammatico: ma Margherita non poteva certo immaginare quello che sarebbe accaduto.
Mentre Elvira, uscendo dalla porta principale, attraversava la strada, cercando con lo sguardo quello di Margherita che la osservava da uno dei piani dell’edificio, un camion alleato guidato pericolosamente ad alta velocità investiva la povera ragazza che veniva scaraventata molte decine di metri più avanti.
Margherita, non appena si rese conto di quello che era successo, lanciò un urlo tremendo che richiamò le altre ragazze, che non riuscivano a superare lo sconvolgimento mentale che si era impadronito di tutte.
Margherita questa volta non resistette allo shock e cadde svenuta: fu soccorsa e portata in infermeria. Quando rinvenne chiese di Elvira e le fu detto che l’avevano condotta in ospedale nel tentativo di salvarla, ma le sue condizioni erano molto gravi. Dopo alcune ore giunse la notizia che Elvira era morta. Era il 20 novembre del 1945.
Margherita rimase stravolta, muta, con lo sguardo fisso nel nulla, senza mangiare, né bere: adesso aveva perso tutto e ogni personale risorsa fisica e spirituale. Pianse, pianse molto, non appena riuscì a farlo. Poi non aveva più lacrime a disposizione e le rimase soltanto il ghiaccio nel cuore. E i ricordi... Era straziante ricordare tutto, ma non riusciva a impedirselo.
Qualche giorno prima della sua liberazione, un giovane in borghese chiese di Margherita, ma non lo fecero entrare in parlatorio, perché era in corso una delle solite ispezioni e aveva lasciato all’ingresso frutta, formaggio e marmellata per lei. Era Luciano, il partigiano sedotto e tradito, ma ancora innamorato di lei.
Poi anche lei fu finalmente libera: era il 1° dicembre 1945.

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