sabato 23 aprile 2011

L'onore e la passione (II parte)

Capitolo 2°
Margherita, Elvira, don Enrico

Al momento della cattura di Elsa da parte dei partigiani, le altre due ausiliarie Margherita ed Elvira, non incrociando lo sguardo dei medesimi, riuscirono a defilarsi fortunosamente in un vicolo laterale; poi svoltato l’angolo, ecco, provvidenziale, una chiesa aperta. Balzarono dentro la chiesa e si nascosero nei confessionali, prese dal panico nel timore di essere inseguite e attesero in silenzio.
Margherita non era solita abbandonarsi ai ricordi e alle struggenti nostalgie, non conosceva la tenerezza del lasciarsi andare. Abbandonato ogni senso di colpa e repressi i
sentimenti più puri, aveva sacrificato tutto, anche il meglio della sua femminilità, sull’altare di una causa destinata a soccombere, destino di cui era consapevole da molto tempo.
Aveva amato intensamente il partigiano Luciano ma non era riuscita a non tradirlo, aveva letto e conservava con cura come un bene prezioso la lettera estrema che il giovane le aveva fatto pervenire tramite i suoi carcerieri.
Egli, infatti, pur sapendo di essere stato tradito dalla sua donna ideale, le aveva scritto dall’anticamera della morte una lettera tragica e appassionata, documento drammatico e sublime di un Amore con la lettera maiuscola che non si ferma di fronte a qualsiasi ostacolo, senza limiti e condizioni, puro, esclusivo, totalizzante; un amore che tuttavia non gli impedì di mantenere fede al giuramento di fedeltà alla causa e ai compagni.
Margherita lo aveva invece venduto per assicurarsi e mantenere quei pochi vantaggi e privilegi che oggi per lei erano rimasti soltanto motivo di rischio e d’infamia.
Nel buio del confessionale e nel silenzio, Margherita che non perde la consueta lucidità e freddo distacco, non può non ripiegarsi per qualche attimo su se stessa.
Ci sono per tutti dei momenti straordinari in cui ci bastano alcuni secondi per ripercorrere tutta la nostra vita, attraverso pochi flash d’immagini talora un po’ ingiallite
come nelle vecchie fotografie: cambiano i colori, sfumano molti particolari, ma gli sguardi rimangono indelebili come certe parole, certi discorsi, certe battute.
Su ogni altra cosa prevaleva assolutamente il ricordo della mamma con cui manteneva un legame ombelicale al di là del tempo e dello spazio, era il suo idolo sacro e quelle parole materne pronunciate in momenti estremi, esclusivi e irripetibili erano per lei comandamenti: ... da quando un bombardamento alleato distrusse la sua casa in riva al mare nella costa occidentale della sua Sicilia e annientò la sua famiglia, e la rincorsa su quei brandelli di scala esterna per raggiungere la sua cameretta al primo piano e recuperare le sue povere cose, fra cui la bambola di stoffa regalatagli dal padre, volontario e probabilmente disperso in Russia, e la corsa ad un ospedale lazzaretto militare da campo per assistere all’ultimo respiro della mamma, gravemente ferita dalle bombe e il commiato materno: “Sii forte, lotta se è necessario contro tutti, sarò sempre accanto a te”... e le urla e le corse disperate in riva al mare, l’angoscia quella profonda che sembra annullarti, ti toglie ogni ritmo di quotidianità, la solitudine che è come un gelo che intorpidisce ogni angolo del tuo corpo e poi...la fuga verso il Nord, forse per raggiungere intanto quei lontani parenti a Reggio Emilia, e poi... la Toscana, l’Emilia, la Lombardia…
L’amarcord è interrotto dalla voce di Elvira che prima ha fatto capolino fuori dal confessionale, poi è uscita ed ha raggiunto l’amica: “Margherita, senti c’è una musica d’organo e là, vedi, dietro al presbiterio c’è una luce... Chiediamo aiuto ed ospitalità: diremo che siamo studentesse...”.Margherita riprende il suo zaino e con Elvira si avvicinano a quella luce che getta una pennellata di colore sul viso magro e occhialuto di un piccolo prete che digita sulla tastiera e non sembra accorgersi dell’altrui presenza. Indossa un abito talare un poco sudicio e rassettato. Elvira aveva dimenticato quella chiesa, ma non quel “povero pretino” (parole dette a suo tempo più con scherno che con commiserazione): lo riconosce subito e lo rivede seduto al centro di quello stanzone vuoto nella Komandantur, sottoposto agli interrogatori di un capitano della Wehrmacht, circa le accuse che gli erano rivolte di aver nascosto quei “miserabili ebrei” che il vescovo gli aveva affidato, in attesa del viaggio che li avrebbe condotti oltre la linea gotica.
Era una domenica di novembre del 1944 ed Elvira raccoglieva in quella stanza del comando tedesco i frutti della sua delazione: aveva contattato don Enrico perché portasse l’estrema unzione al “padre gravemente ammalato”, ma si trattava di una trappola ordita per arrestarlo e sottoporlo a violenze e interrogatori. Nel frattempo ogni angolo della chiesa e della canonica era stato perquisito e messo in soqquadro dalla polizia fascista nella speranza di trovarvi ebrei nascosti.
Prima di partire al seguito di Elvira, don Enrico aveva avuto una premonizione o divina illuminazione e aveva fissato intensamente, con sguardo drammatico e d’intesa, donna Beatrice, la sua perpetua, che intuì quello che il sacerdote voleva comunicarle: fece subito uscire dalla canonica l’intera famiglia di ebrei che vi si era nascosta e la condusse fino al palazzo vescovile nei cui sotterranei trovarono una temporanea sistemazione e la salvezza. Don Enrico, attraverso la vetrata di un mobile che rispecchiava l’immagine di Elvira e dietro ancora quella di Margherita, le aveva già intraviste e aveva riconosciuto Elvira: “Figliole, venite, il Signore non si dimentica di nessuno dei suoi figli, soprattutto nei momenti di prova e di sconforto; vi perdona e vi ospita nella sua casa”. Si alzò dal sedile e andò ad abbracciare Elvira: nel suo volto non c’era traccia di odio, di rancore o di un qualche fastidio, era un volto luminoso e sereno, come se avesse riabbracciato un’amica ed era stata invece la sua potenziale carnefice. Quindi strinse la mano a Margherita. Le accompagnò da donna Beatrice che, vedendo Elvira, trasalì e incominciò a farfugliare:
“Ma don Enrico, non capisco... adesso dobbiamo prendere anche loro, con tutto quello che c’è stato...”.“Su, su” riprese don Enrico” devi trovare dei vestiti più appropriati in luogo di queste divise e poi
troveremo il sistema di farle uscire dalla città...”. “I garibaldini non scherzano... il minimo che puoi perdere con loro - disse rivolto a Elvira - sono i tuoi splendidi capelli”.
Elvira era commossa e annichilita, meglio dire conquistata dallo slancio di amore cristiano del sacerdote: introvabili e irriconoscibili il suo ego sconfinato e il suo sguardo fiero. Donna Beatrice accettò umilmente di aiutarle ambedue, ma osservava con particolare interesse Margherita muta, con quella sua maschera di ghiaccio, con
quel suo fare spigoloso, indomata e indomita, l’aquila altera... e aveva solo ventidue anni. “E’ un mostro di superbia” - confidò a don Enrico.

La notte fra il 25 e il 26 aprile trascorse serena per le due ragazze nella canonica di don Enrico. Il mattino dopo il sacerdote celebrò la messa in una piccola cappella al primo piano della canonica dove Elvira poté confessarsi e ricevette anche l’Eucarestia: le sembrò di rivivere qualcosa di molto simile alla sua prima comunione sul greto del fiume Reno in una piccola chiesetta, fra tanto verde e festa paesana, nel lontano 1933. Allora indossava un vestito bianco e in testa una corona di mimose: ricordava quella vecchia foto insieme alla compagna del cuore, Elia, con quegli occhiali spessi e l’apparecchio ai denti, schiva e secchiona, sempre sui libri, mentre lei Elvira pensava soltanto ai compagni maschi della scuola elementare che la lusingavano di sguardi ed apprezzamenti. Partì diciottenne per fare l’ausiliaria, contro il parere e la volontà dei genitori che già non si rassegnavano ad aver perso il figlio maschio, militare in Africa orientale: con il suo bagaglio d’idee e d’illusioni, credeva nei “miracoli” e disprezzava il buon senso come indice di
debolezza. Intransigente, come la maggior parte dei giovani, era talvolta incapace di comprendere i compromessi di cui la vita è intessuta e insofferente verso chi per età ed esperienza, creava difficoltà ai suoi piani, gettava acqua sulle sue passioni. Rimproverava alle stesse comandanti del servizio ausiliario una concezione monacale dell’istituzione, che impediva alle ragazze di andare al fronte per essere vicine ai soldati e condividerne gioie e dolori, come crocerossine in armi o semplicemente combattenti.
Elvira non aveva mai nascosto a nessuno che gli stimoli del suo operare e della sua presenza nel S. A. F. (Servizio ausiliario femminile) erano la fede fascista e la devozione ai maschi di cui voleva lenire ferite e sofferenze, utilizzando ogni attributo della sua femminilità: era molto bella, con un corpo sinuoso, fresco, fine e aveva dei modi eleganti e raffinati: sembrava fatta per l’amore.
Quando i camerati cantavano in coro: “Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera!”, era solita esclamare: “Ma che sciocchi... ci siamo noi, no?”. Tutto era entusiasmo per Elvira, tutto era nella stessa fiammata, dal sesso al fascismo, dal fascismo al sesso.
Portare la divisa militare non era un sacrificio, non era una specie di cintura di castità, anche se alle ausiliarie fasciste era imposta una rigida disciplina: a loro era proibito fumare, proibito l’uso del rossetto, sia in divisa, sia in abiti borghesi. La tenuta delle ausiliarie era sobria, austera, come lo era del resto il panno della divisa grigioverde dei militari uomini, con la gonna lunga 4 centimetri sotto il ginocchio, il gladio sulle mostrine e sul basco e una fiamma ricamata di rosso. Un panno grezzo e un abito dal taglio contro ogni tentazione. Un’occhiata equivoca a un camerata poteva costare la camera di punizione.
Niente rossetti; niente donne fatali; niente amori conturbanti; ma sorelle buone del soldato: questa la regola cui Elvira non riusciva del tutto ad adeguarsi. Gli slanci emotivi e passionali di Elvira non appartenevano invece a Margherita, più distaccata e più saggia, spesso cerebrale: non riusciva mai a convincere pienamente l’amica del cuore che frequentare le zone a rischio a qualsiasi titolo metteva le ausiliarie a repentaglio d’imboscate partigiane e allora non c’era scampo: era più facile che si salvasse un fascista che una del S. A. F. Infatti, era noto che molte ragazze anche di sedici o diciotto anni, catturate dai partigiani erano state uccise in circostanze crudeli, dopo violenze, stupri e sevizie e dopo aver dovuto sfilare nude, con capelli tagliati a zero, tra siepi di gente scatenata.
Margherita era estremamente protettiva nei confronti di Elvira: non erano soltanto i due anni in più di età, le esperienze della vita trascorsa e la predominanza del carattere. Si trattava anche di una malcelata attrazione fisica verso quella cerbiatta scalpitante, che Elvira, disinibita e civettuola, aveva intuito, alimentando così le sue fantasie sessuali e approfittandone spesso per ottenere più facilmente dall’amica l’approvazione e l’accondiscendenza nell’esaudire qualche suo capriccio.
Bisessuale, Margherita aveva tuttavia sempre pensato che il corpo della donna fosse più bello di quello dell’uomo. Preferiva le sue forme, le sue rotondità, la sua dolcezza. Ma si era a lungo rifiutata di trovarlo sessualmente attraente. D’altronde, era stata con parecchi uomini, fra cui Luciano da cui era molto attratta. Le altre erano state avventure senza importanza, o strumentali per il raggiungimento di un qualche scopo. Andava a letto con loro per fare come le altre e talvolta faceva anche finta di provare piacere. In realtà cercava prima di tutto di convincere se stessa.Per il momento, non viveva ancora pienamente la sua condizione. Il suo corpo diceva di sì, ma la testa diceva ancora no. Non aveva ancora fatto il grande passo. Non ne aveva ancora parlato a nessuno e non era ancora pronta. È difficile rendersi conto del fatto che ci si è sbagliati per anni. Per la prima volta sognava qualcosa di magnifico,
qualcosa di magico. Allora aspettava...
Infatti, con Elvira, Margherita non si era lasciata andare più di tanto: nessun cedimento se si escludono teneri fraterni abbracci e dolci carezze.
E poiché le migliori carezze sono quelle che toccano la mente, mentre accarezzava il corpo di Elvira, Margherita pensava anche ad accarezzarlo con le parole. Le diceva che era bello, che le piaceva, e parlando, l’effetto delle carezze era moltiplicato! Due personalità diverse ma complementari: l’una tenera sognatrice e l’altra indomita domatrice, anche con le parole e con il magnetismo degli sguardi.
Tutto il giovedì 26 aprile fu trascorso in un clima di relativa serenità: dalle strade, attraverso le persiane chiuse del 1° piano della canonica, arrivavano urla, suoni, rumori che crescevano fin quasi a voler riempire la cameretta che ospitava le ragazze e vibravano i vetri delle finestre. Poi tutto defluiva e rimaneva appena un segnale in lontananza. Verso sera don Enrico, tornando dal vescovado, portò le ultime notizie: la brigata nera barricatasi in un edificio con gli estremi difensori, si era arresa dopo una notte di combattimenti e il CLN locale aveva assunto tutti i poteri. Erano stati istituiti numerosi posti di blocco nelle strade e si parlava di esecuzioni sommarie di fascisti o presunti tali. Bisognava attendere che la tensione diminuisse e che gli eventi fornissero qualche suggerimento utile per la sorte delle ragazze. Non si avevano notizie di Mussolini e dei membri del suo governo, se non quanto il vescovo aveva saputo circa l’incontro del Duce con il card. Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, e i rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale alta Italia.
Venerdì 27 fu un giorno drammatico. Margherita fu svegliata da urla e spari e si avvicinò alla finestra. Vide molto bene una scena molto drammatica e raccapricciante: due ragazze rapate a zero, con la testa cosparsa di minio e al collo il cartello con la scritta: “Puttana dei tedeschi”, erano state anche denudate e venivano trascinate per la strada in mezzo ad una folla esaltata che le apostrofava con epiteti e frasi irriferibili. Furono poi caricate in un camion: fu evitato il linciaggio ma il loro destino era probabilmente già scritto. Nel pomeriggio donna Beatrice informò che aveva sentito dire che Mussolini era stato catturato in fuga in una località del lago di Como, mentre si nascondeva in un camion vestito da soldato tedesco e fece i suoi commenti, terminando con un proverbio del tipo: “Chi la fa l’aspetti” oppure “Chi di spada ferisce...” ecc. ecc.
Margherita rimase sorpresa prima ancora che scossa, da questa notizia: per quanto pragmatica fosse, non mancava di una certa vena d’idealismo. Credeva davvero che Mussolini non avrebbe potuto, né dovuto sottrarsi alla dignità della “bella morte”, magari nel corso di una disperata resistenza nel “ridotto valtellinese”, di cui si era molto parlato in federazione.
Elvira era invece letteralmente sconvolta da tutto quello che aveva visto e appreso e ormai si appoggiava a Margherita per ogni valutazione o decisione. La osservava, la ascoltava e cercava in lei ogni risposta. In fondo questa dipendenza aveva sempre caratterizzato il loro rapporto ma Elvira non mancava mai di esprimere positivamente se stessa con quella vitalità e vivacità istintiva ed intuitiva che infiammava la loro amicizia. Adesso si era spenta: era diventata l’ombra di Margherita che sentiva questa sua nuova responsabilità di guida.
Fu messa a disposizione delle ragazze una vecchia radio con cui don Enrico ascoltava frequentemente radio Londra e la radio Vaticana e per tutto il giorno di sabato 28 aprile cercarono di sintonizzarsi qua e là per reperire notizie, finché, al mattino di domenica 29 verso le ore 9, radio Milano Libera dette in poche parole la notizia che Mussolini era stato giustiziato, mentre il giorno successivo venne ripetutamente trasmesso un comunicato del Comitato di liberazione nazionale, secondo il quale l’esecuzione della condanna a morte di Mussolini e dei suoi ministri era la necessaria conclusione di una fase storica e la premessa della rinascita dell’Italia.
Nel pomeriggio del lunedì fu annunciata alle ragazze la visita in canonica del padre di don Enrico: un vecchio popolare sturziano, professore di liceo che non aveva mai voluto prendere la tessera del Partito nazionale fascista, sicuramente un antifascista della prima ora, ma non c’era da preoccuparsi di nulla. Anzi il prof. Luigi sarebbe stato un garbato e interessante conversatore.
Margherita, infatti, dopo le notizie diffuse attraverso la radio, aveva una grande voglia di parlare e di sfogarsi, soprattutto voleva spiegare che tipo di esperienza e di vocazione era stata quella delle ausiliarie in genere, a prescindere dalla sua personale scelta che non
rappresentava proprio quel modello di purezza vocazionale che essa stessa aveva ravvisato in molte sue camerate.
Papà Luigi era un vero gentleman, le salutò con calore e con grande cavalleria, si complimentò per la loro bellezza e s’interessò ai loro problemi e alle vicende della loro vita. Ambedue gli aprirono il loro cuore e i loro ricordi, almeno quelle cose e quei fatti che era il caso di raccontare.
Poi alla domanda del professore quali fossero le motivazioni e i meccanismi psicologici che stavano alla base di una scelta così forte e tragica per una donna come quella di arruolarsi in un esercito in guerra e per di più anche in una guerra civile, Margherita che delle due era sicuramente l’intellettuale (aveva, infatti, conseguito il diploma magistrale e si era anche iscritta a lettere all’università), si sforzò di dare il meglio di sé per spiegare e comunicare i valori che secondo lei contraddistinguevano la missione dell’ausiliaria.
Trasparivano dalle sue parole la rabbia e la delusione per una gerarchia fascista a livello centrale e periferico che aveva abbandonato tutti e tutte al proprio destino. Erano partite, mature o giovanissime, per offrire con semplicità e spontaneità il loro aiuto, proprio come fasciste e come donne; erano partite a tutti i costi, rifiutando “di continuare a vivere in quel limbo privilegiato, asettico, mondano, apolitico, indifferente, in cui la corrente morale borghese pareva voler continuare a relegare la donna”.
Il professore chiese a Margherita se le donne fasciste chiedendo di svolgere compiti simili all’uomo, avessero pensato a una qualche emancipazione verso un’equiparazione dei sessi e Margherita rispose che non era stato uno snobistico o antagonistico atteggiamento dì rivolta sessuale o culturale, o forse lo fu in una qualche misura soltanto per alcune, ma fu per tutte una forza morale e ideologica, una rivincita antagonistica sulla pigrizia e sull’inerzia morale, sull’indisciplina, sulla meschinità, sulla vigliaccheria degli stessi uomini.
Ancora il professore chiese se avevano incontrato resistenze o difficoltà d’inserimento da parte del sesso forte e come avevano reagito ai comuni pregiudizi sul sesso. “Era noto, infatti - aggiunse - che il generale Rodolfo Graziani era solito dire che nelle caserme il posto delle donne poteva giustificarsi soltanto se prostitute...”.
Margherita rispose che le ausiliarie avevano saputo infischiarsene dei visi ostili e ironici, troppo spesso chiusi in un mutismo di compatimento o di diffidenza. Per resistere alle prove durissime e alle non poche privazioni, misero in atto la loro innata e tipicamente femminile capacità di sopportazione fisica e morale; pur con la loro
aria scanzonata e vivacità, resero in umiltà e silenzio servizi preziosi e talora disperati, compreso quello di sorridere e di trovare la forza per far sorridere pur nelle ore più tragiche.
Poi il professore prese, come si suole dire, “il toro per le corna” e…: “Ma come avete potuto finalizzare tutto questo slancio e questa vostra esuberanza giovanile al sostegno di una causa tanto perversa e aberrante: un regime dittatoriale che voleva impadronirsi del mondo, che aveva fatto del razzismo la propria religione e dell’antisemitismo la bandiera. Come potevate non sapere dei campi di sterminio, delle stragi compiute in tutta Europa e in Italia dai tedeschi e dai fascisti... Le donne che collaboravano con i nazisti, come lei, come voi, sapevano benissimo che cosa accadeva nei rastrellamenti, nelle carceri, negli interrogatori... e sapevano delle
deportazioni”.
Lo interruppe Margherita, lucida, fredda, cerebrale e intimamente perversa: “Abbiamo scelto la causa sbagliata quando sarebbe stato tanto più comodo imbarcarsi in quella “giusta”... questo vuol dire? Potrei risponderle che sentivamo irrinunciabile il dovere, l’ansia e la passione di riscattare l’onore della Patria. Ed era facile convincersi di questo per l’educazione e la formazione politica e civile ricevuta: bastava questo e il resto era abbastanza noto ma trascurabile, irrilevante ai fini della nostra scelta; anzi non doveva interessarci. Quanto agli ebrei, tra la generalità dei militanti della RSI che io ho conosciuto, una questione ebraica semplicemente non esisteva e nei tedeschi non vedevamo i nazisti ma semplicemente i nostri alleati. La guerra condotta dai tedeschi, come in qualsiasi altra guerra senza eccezioni, comporta delle atrocità che non sono monopolio dei nazisti, e per quanto riguarda l’Italia, i veri invasori sono stati gli angloamericani, non i tedeschi”.
Replicò il professore: “Voi avete collaborato con i tedeschi, perché non avevate “tradito” e quindi eravate “migliori” degli altri e delle altre. Questa vostra motivazione di un senso forte di vergogna per il
“tradimento” italiano paradossalmente diventa giustificazione per tante altre forme di tradimento e di sopraffazione. Nella RSI, poi, non vi erano soltanto anime spinte da valori o pseudo-valori ideali, ma anche vecchie cariatidi del regime, criminali di guerra (a quanto ci raccontano i soldati sbandati che tornano dai Balcani e a quello che si sa, è stato fatto nelle ex colonie), opportunisti, aspiranti al ritorno alle origini violente e “sociali” del fascismo, apparati burocratici e repressivi ereditati dal ventennale regime, nonché persone dedite al doppio gioco: insomma una complessità spesso eterogenea e contraddittoria di componenti e non soltanto degli idealisti.
Lei identifica la patria con il fascismo e la sua guerra; la motivazione più forte delle vostre scelte sembra essere l’onore da riscattare contro il tradimento monarchico e badogliano. Ma la patria non può identificarsi con il fascismo, e della patria e dell’onore, da uomini e donne, anche vostre coetanee, ragazzi e ragazze, sono state date anche interpretazioni opposte alla Sua, dalle quali hanno preso corpo motivazioni antitetiche e scelte del tutto opposte e contrastanti.
Ancor meno mi convince la sua affermazione che tra la generalità dei militanti della RSI che Lei ha conosciuto, una questione ebraica semplicemente non esisteva: oltre alla politica antiebraica praticata ormai da sette anni dal regime fascista, come può ignorare la Carta di Verona, secondo la quale “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri e durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica” e perché finge di non sapere della sistematica caccia agli ebrei che i tedeschi hanno scatenato assistiti dai fascisti?
Quanto alla sua affermazione che nei tedeschi non vedevate i nazisti, ma semplicemente i vostri alleati, basta pensare all’esaltata consonanza ideologica fra fascismo e nazismo che era il cemento dell’alleanza, alla quale il fascismo repubblicano è voluto restare fedele”.
“Ma poi, in definitiva, - interruppe Margherita - chi ha imposto le sanzioni all’Italia fascista, chi ha preparato la guerra contro le forze dell’Asse, chi in Italia ha continuamente operato al fine del tradimento e della sconfitta militare, se non la giudeo-massoneria? Quanto peso ha avuto l’ebraismo internazionale sui successi militari delle demoplutocrazie occidentali? Sì, lo affermo senza indugio, così come dichiaro il mio disprezzo verso i traditori del 25 luglio 1943”.
Infine trasse le sue conclusioni personali: “Noi abbiamo fatto semplicemente quello che ritenevamo essere il nostro dovere, e credo che basti. L’onestà riguarda le intenzioni e il modo particolare del proprio agire ed è ingiusto attribuire meriti o demeriti morali non in base al comportamento e alla buona fede di ciascuno, ma alla parte nella quale ci si trova schierati, che poi significa dalla parte dei vinti o dei vincitori”.
Terminò affermando con fermezza che la scelta da lei allora compiuta era giusta, tanto che la rifarebbe senza esitazioni.
Riprese a parlare il professore: “La buona fede è certo un elemento necessario perché un comportamento possa essere qualificato come morale. Ma non è un elemento sufficiente. È molto probabile che anche Hitler fosse in buona fede quando scatenò la guerra e quando decise lo sterminio degli ebrei, con un comportamento coerente alle sue più profonde convinzioni e a quello che riteneva essere suo dovere. Discorso in parte analogo può farsi per l’onestà delle intenzioni, a sua volta senza dubbio indispensabile. Ma la parola “onestà” può avere due sensi differenti. Essa può esprimere la coerenza con ciò in cui si crede in buona fede, e allora è poco più di una tautologia; oppure contiene un implicito rinvio al contenuto delle intenzioni, e allora va posta la domanda: onestà rispetto a che cosa? Per rispondere, il giudizio deve entrare nel merito e confrontare le intenzioni con i risultati e quindi anche con i comportamenti adottati per realizzarli. I risultati - lo sappiamo bene - possono verificarsi tenendo scarso o nessun conto delle intenzioni; e qui sta il nodo tanto difficile da sciogliere per giudicare sia le azioni dei singoli che quelle collettive, per formulare sia il giudizio morale che quello storico”.

“Cosa passava e passa per la vostra testa e cosa penserete e proverete una volta tornate alle vostre case e alle vostre famiglie...?”
Il professore alla fine fu esplicito con Margherita: la violenza, l’odio e lo spirito di vendetta fratricida fra gli italiani erano stati introdotti proprio dal fascismo repubblicano e dalla R.S.I. dal settembre 1943 in poi, cioè dalla nascita della repubblica fascista: infatti, prima, la caduta del fascismo e poi l’armistizio avevano soltanto scatenato in tutti l’entusiasmo e il sollievo per la fine del regime e poi della guerra e non il desiderio di vendetta.
Lei sapeva e aveva la capacità intellettuale di poter discriminare. Come volontaria, senza alcuna attenuante costrizione così com’era avvenuto per i maschi chiamati alla leva, era pienamente responsabile della propria scelta, quella di voler sostenere, per idee o convenienza, una forza politica e un’alleanza militare che ha portato il mondo alla catastrofe e ben più gravi immaginabili conseguenze si sarebbero prodotte se il nazifascismo avesse prevalso.
E terminò: “Prego Iddio che vi salvi da ogni vendetta, ma con il ghiaccio nel cuore voi pagherete questa vostra avventura disgraziata con il peso tremendo di dover continuare a vivere, se vi sarà riservato il privilegio e il castigo di essere state risparmiate”.

“Per rispondere adeguatamente, - concluse sinceramente Margherita - avrei bisogno, almeno per quanto mi riguarda, di raccontarle, insieme a tante altre cose, anche il prologo della fame e di una vita di stenti”.
Il professore conosceva bene il ruolo e le attività svolte dalle due ausiliarie, così come di altre sue camerate: erano state spie e delatrici, ormai note in città e in modo particolare in certi ambienti della politica e dell’antifascismo. Per questo il suo intervento dialogico, inizialmente piuttosto soft, delicato e compiacente, si appesantì notevolmente a tal punto che dovette intervenire il figlio don Enrico a ripristinare una certa soavità di toni e un equilibrio emotivo che si rendeva indispensabile date le circostanze.

Il dialogo con il professore aveva scosso soltanto un po’ Margherita che adesso pensava a come poter uscire dalla città per andare... dove andare? D’altronde don Enrico aveva anche riferito che ronde partigiane rosse visitavano e ispezionavano sistematicamente parrocchie, conventi e monasteri, sospettati tutti di nascondere “criminali fascisti”; prima o poi sarebbero venuti e sarebbe stato meglio allontanarsi dalla città dove peraltro erano più facilmente riconoscibili. Egli aveva pensato a tutto: da una stazione ferroviaria in una città vicina passavano treni pieni di gente la più diversa e disparata che raggiungevano Milano e lì sarebbe stato più facile nascondersi ancora (e don Enrico aveva voluto che le ragazze memorizzassero qualche nome e indirizzo) oppure proseguire direttamente verso Bologna e la Toscana. Ma sicuramente nei pressi della stazione ferroviaria ci sarebbero stati dei controlli.
Potevano ancora trattenersi ancora un giorno e la sera dopo con il buio raggiungere la piazza del mercato dove sarebbe stata ad attenderle un’automobile guidata da un avvocato che doveva raggiungere Milano entro l’indomani, persona fidatissima, un monarchico badogliano che aveva istruito diversi processi per profitti di regime nei quarantacinque giorni fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, un uomo di grande fede cattolica e ben visto negli ambienti della curia vescovile.

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