venerdì 20 maggio 2011

Saggi (IX parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Claudio Magris

L’Ulisse ebreo dell’est – Roth tra impero e Golus

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Come Musil e Broch (si pensi ai personaggi Tonka nell’omonima novella e a Ruzena nei Sonnambuli) anche Roth riconosce inoltre nell’elemento slavo una tale purezza che sembra permettere una piena dedizione alla vita al di là di ogni frattura/scissione intellettuale. Le parole slovene sulle labbra del padre sembrano all’eroe di Solferino nella MARCIA DI RADETZKY “ qualcosa di lontano già noto e di casalingo ormai perso “ (I, 7) , la lingua slava, che il nipote sradicato non capisce più , è come un oceano sconosciuto (I, 56) , l’impero prosegue a vivere ancora soltanto nel canto ruteno/carpato/ucraino : “ Oj nasch cisar, cisarewa “.

Nell’opera DESTRA E SINISTRA Brandeis appare come un “ mongolo, come un inquieto demone dell’est, che proprio perché è lontano dalle abitudini europee “ possiede uno stretto rapporto con la natura e con la primavera, che vengono poste sullo stesso piano della lingua russa (II, 563). Allo stesso modo nel romanzo I CENTO GIORNI vengono messi sullo stesso livello il pane fatto in casa e l’abete di Natale pieno di profumo (II, 737), e nella novella CAPOSTAZIONE FALLMERAYER (1933) alla lingua russa della contessa Walewska viene data la stessa importanza della patria (III, 78). In tutto ciò gioca certo un grosso ruolo il prevalente motivo politico, cioè l’austroslavismo, come è stato trattato da Roth nella tenace polemica antitedesca, dove questi si è spinto in avanti a tal punto da considerare tutti i popoli dell’impero come austriaci con l’eccezione degli austro-tedeschi. Qui c’è anche una parte metapolitica o per lo più uno spostamento sul piano metapolitico. La magia dell’anima slava è presente anche inconsciamente nella forza attrattiva che esercitano le “ nazioni senza storia “, se queste vengono intese secondo la tradizione, cioè come comunità di contadini locali ed in sé racchiuse, come custodi di valori non modificati che una generazione tramanda all’altra. Come ha provato Arduino Agnelli nel suo studio Questione nazionale e Socialismo proprio il pensiero austro-marxista ed in particolar modo quello di Otto Bauer aveva corretto una tale visione romantico populista vedendo nelle nazioni senza storia non isole arcaiche, ma entità storiche sopraffatte da forze oppressive e private/depredate per secoli di ogni strato guida e con ciò di ogni tradizione culturale e di ogni iniziativa politica. In questo senso tuttavia il primitivismo di Roth è tutt’altro che ironico e cosciente, come afferma Powell , esso è invece da definire sincero ed ingenuo : desidera davvero una comunità del tutto al di fuori della storia, così come Carl Joseph von Trotta desidera davvero ritornare alla vita di paese sloveno dove il tempo viene misurato da ciò che danno le donne ed i campi (I, 57). In questo modo Roth giunge ad una simbiosi ebreo-slava in nome di un comune destino senza storia. Come nel teatro ebreo a Mosca i diminutivi slavi offrono una morbidezza straordinaria ai testi jiddish (III, 485) così nell’opera LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI lo sloveno Joseph Branco e l’ebreo galizio Manes Reisiger come interscambiabili incarnazioni di una forza naturale che non può essere ferita non possono venire danneggiati da violenze politiche. Nella MARCIA DI RADETZKY il nonno del medico militare Max Demant, l’oste/il padrone di casa ebreo, sublime e patriarcale con i suoi vecchi libri e la sua bianca barba, incarna un uomo assolutamente completo, paragonabile alla forza vigorosa del cosacco Nikita che spaventa Paul Bernheim (DESTRA E SINISTRA). L’est è senza storia come il sole che sorge là ogni mattina, e l’ebraismo è per Roth ebraismo dell’est, ciò che c’è “ di più ebreo “ (III, 488) perché più orientale, dionisiaco e libero come Manes Reisiger che fa pensare a “ la foresta primordiale, all’uomo delle caverne, alla preistoria “ (I, 342). L’ebraismo dell’est viene posto di fronte alla situazione spirituale europea come ideale positivo ed appare come un simbolo dell’est stesso ; Brandeis può essere “ mongolo “ o “ ebreo “ mentre l’anarchico Benjamin Lenz nella TELA DEL RAGNO (1923) emana risolutezza e “ calore “ (pag. 91). L’amore di Mirjam e del cosacco nel campo di grano già alto e pronto per la mietitura (GIOBBE; II, 54) può venire inteso come simbolo di questa simbiosi, così come nella novella Il cosacco che si era perso dello scrittore jiddish Fischi Schneersohn (1887-1927) l’ebreo dell’est viene preso per un cosacco dalla confraternita di credo occidentale della sinagoga di Berlino. La “ patria “ può essere situata nell’est, ma l’est è solo il proprio paese che il protagonista del racconto di Schneersohn ha abbandonato per portare la moglie malata dai medici a Berlino. La “ patria “, l’ “ impero “, l’Austria esistono solo a casa : “ La propria patria (…) era forse ancora l’Austria “ (I, 280) , pensa Carl Joseph von Trotta.


II IDILLIO E RIVOLUZIONE


Hermann Kesten ha scritto nella sua Ode a Joseph Roth che se lo scrittore vivesse ancora a lui “ non andrebbe bene “ Herbert Marcuse. Al di là del sottile tono del poeta da locale del caffè, che è così tipico di Kesten, la polemica allusione a Marcuse sottolinea indirettamente una parte fondamentale dell’ebraismo in Roth. Se è permesso ricondurre un fenomeno così stratificato a più livelli ad una formula schematica allora nell’ambito dell’antistoricismo ebreo si lasciano distinguere due direzioni pienamente diverse, se non persino opposte. Con riferimento al sionismo Kafka notò che gli israeliti desideravano avere una patria nello spazio al posto della loro patria diaspora che è il tempo.Forse bisognerebbe dire più precisamente che la patria degli ebrei della diaspora è da trovarsi in un’assenza di tempo. Dalla distruzione del tempio il popolo d’Israele ha continuato a vivere non più nel divenire, bensì in un libro, nelle parole e nella scrittura, nella torah che comprende anche il tempo prima ancora della creazione stessa. Il libro, ha spiegato Maurice Blanchot, significa la non esistenza del tempo ; la tradizione ebrea sembra essere articolata attraverso i secoli secondo rigidi/fissi archetipi ed il modello della ripetizione. Tutto il modo di narrare del grande scrittore jiddish ancora vivente Isaac Bashevis Singer si basa per esempio su una dimensione sincronica che prescinde da ogni categoria temporale vera e propria.

Il rifiuto della storia temporale rivela due direzioni. Con la rottura dei “ vasi sacri “, come si dice nel testo più importante della mistica ebrea, cioè nel Sohar o Libro dello splendore (XIII sec.), le scintille della luce divina sono precipitate nell’oscurità e si sono mescolate ad essa, il Bene si è unito dappertutto con il Male e la Shekhinà o la presenza di Dio è stata bandita. La patria deve trovarsi obbligatoriamente al di fuori dell’esilio, al di là della storia temporale, così come Itaca era situata lontano dalle battaglie alle mura di Troia e distante dalle tempeste marine sulla via del ritorno. Oggi la moderna utopia si collega troppo profondamente con la tematica ebrea dell’esilio nella sua rivolta antistorica. Ernst Bloch ha parlato della “ patria “ che “ sembra a tutti ricondurre alla fanciullezza e dove ancora non è stato nessuno. “ Ma Bloch cerca la patria in un futuro senza tempo, mentre Roth la vede proprio nell’assenza di tempo della fanciullezza, cioè indietro invece che avanti, ad Itaca come l’omerico Ulisse, invece che alle Colonne di Ercole come in Dante.

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Saggi (VIII parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Claudio Magris

L’Ulisse ebreo dell’est – Roth tra impero e Golus

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

I LA PATRIA

Semjon Juschkewitsch, uno scrittore ebreo di Odessa, nel suo racconto Ghetto fa tornare in vita una vecchia tradizione di quel tempo per mano di un personaggio, “ quando noi ( cioè gli ebrei ) avevamo il nostro proprio regno. “ Secondo quella tradizione quelli che si erano resi colpevoli di particolari atti venivano spogliati, ricoperti di miele ed esposti alle api che presto sopraggiungevano. Una volta – prosegue il racconto – quando un condannato era già invaso dal primo sciame di insetti questi fu riconosciuto da un vecchio amico che passava di lì per caso. Questo si mise subito a scacciare le api per lenire i dolori dello sventurato. Ma con sua grande sorpresa gli fu richiesto dallo sventurato di lasciar perdere. “ Le api che sono disseminate nel mio corpo ficcandovi il loro pungiglione hanno compiuto la loro opera e non possono più farmi del male. Se tu le cacci via, dando così ascolto al tuo animo buono, subentreranno subito delle altre al loro posto ed i miei dolori raddoppieranno. Perciò ti prego, lascia stare le cose così come sono, e lasciami al mio destino. “

In questa novella dell’ebreo russo Juschkewitsch, nato nel 1868 e morto a Parigi nel 1927, la figura dell’eroe dolente nella sua stoica passività non si contrappone all’instabile vita umana o all’incerto destino, e neppure alle contraddizioni della vita morale, come avrebbe potuto fare uno stoico martire del barocco, bensì rifiuta la dialettica stessa della storia. Un ebreo perseguitato non si difende con la rabbia/impeto di un Prometeo contro il dolore, né tanto meno accetta il suo destino da martire in devota umiltà, ma ha sfiducia in prima linea nel cambiamento, nega la logica della storia rigettando la speranza messianica di una rivoluzione. “ Noi subiamo la storia “, dirà Kafka , mentre è a meditare nelle strade di Praga con il suo amico Gustav Janouch sull’antistoricismo ebreo; pochi anni dopo Joseph Roth scrisse nel suo saggio EBREI ERRANTI (1927) sugli ebrei dell’est:

La maggior parte sono piccolo borghesi e proletari senza coscienza proletaria. Molti
sono reazionari per istinto borghese, per amore della proprietà e della tradizione, ma
anche per la paura non infondata di una situazione mutata che per gli ebrei potrebbe
risultare non migliore della precedente. E’ una sensazione storica, nutrita da esperienze,
che gli ebrei sono sempre le prime vittime di ogni spargimento di sangue prodotto dalla
storia mondiale. (III, 633)

Certo si nota in questo ed in altri simili passi del saggio di Roth anche la necessità di controbattere la propaganda antisemita di quegli anni che mette l’ebreo – e soprattutto l’ebreo fuggiasco dell’est – sullo stesso piano del rivoluzionario ostile allo stato (oppure al contrario con lo sfruttatore capitalista). Ma c’è anche un motivo più profondo in queste righe nelle quali emerge la tipica presenza di una storia impersonale ed automatica, di fronte alla quale l’uomo è impotente e passivo, un essere debole e senza difese che nella tempesta che si sfoga su di lui , come su di una “ cannuccia nella corrente della storia, che nuota ed è strappata via “, come scrisse Roth nella sua novella APRILE. LA STORIA DI UN AMORE (1925) (III, P 57) non può riconoscere neppure una legge causale. L’intera opera di Roth porta le caratteristiche tedesche di un romanzo storico dove la storia come divenire e scorrere viene negata; è la prova di un anelito alla fedeltà. Una fedeltà che si esprime nel salvataggio metodico e penosamente minuzioso di ogni piccolo evento della vita e di ogni consuetudine familiare, a cominciare dal pedante rituale del dialogo tra padre e figlio all’inizio delle ferie nella MARCIA DI RADETZKY (1932) fino al grottesco rifiuto del conte Morstin di accettare il mondo, quale esso è , dopo il crollo della vecchia Austria (LE BUSTE DE L’EMPEREUR, 1934). Per Roth la storia significa diaspora, esilio : e nell’esilio ogni nuovo cambiamento può significare solo un nuovo esodo/fuga dall’Egitto, una nuova diaspora oppure un nuovo pogrom. O per meglio dire, “ non c’è alcun alternarsi “, come espresse il saggio Eunuco all’irrequieto Schah. (Nell’opera : LA STORIA DELLA 1002° NOTTE, 1939; I, 634).

In quasi tutte le sue opere e particolarmente nell’opera EBREI ERRANTI Roth dirige il suo sguardo in doppio senso alle “ madri “, ad una umanità completa ed inviolata ed a una comunione di sentimenti intoccata ed immediata : il suo sguardo vale per tutto ciò che lui chiama la “ patria “, la perduta ed irraggiungibile patria. E’ noto con quanta insistenza Roth ha messo di fronte la “ patria “ al “ proprio paese “ oppure la desiderata unità di ambiente e persona alla collettività, ciò è aggressivo, razzista e barbaricamente orgoglioso del suo nazionalistico “ segno di Caino “ (III, 637). Per l’ebreo della diaspora il “proprio paese” è un’immagine al servizio degli idoli, sia sotto i brutali stivali prussiani che tra i disumani grattacieli americani; rifugio dai dolori dell’esilio, l’amore ed i sentimenti esistono solo nella patria : in una “ madrepatria “ per usare una parola che ha segnato/improntato la grande poetessa ebrea Else Laskerschueler e che secondo Giuliano Baioni “ significa una completa equiparazione di patria e madre, cioè la madre è la patria, il rifugio, la casa, il confine perduto “.

Come per così tanti altri scrittori del suo tempo, da Zweig fino a Werfel, anche per Roth è l’unico possibile paragone storico di questa “ patria “ o in ogni caso il più vicino ed il più simile quello con la realtà del tramontato impero austro-ungarico. E’ palese che gli ebrei, come nazione straniera in mezzo alle altre, si riconoscessero più facilmente in uno stato sovranazionale che poggiava, almeno teoricamente, sul fondamento di superare le nazionalità. Nel dramma di Franz Theodor Csokor Il tre Novembre 1918 viene descritto come l’astio nazionalistico s’infiammi tra gli allora appartenenti all’esercito imperiale., e come le persone sentano il richiamo dei nuovi propri paesi, o meglio il richiamo della foresta degli atavici istinti di razza che erano stati messi a sopire in uno stato amministrato burocraticamente ; l’unico che si riconosce come erede dell’Austria è l’ebreo dott. Gruen. Con l’anelito ad un impero dissolto collega Roth il suo desiderio di quella unità completa e chiusa che lui riconosce anche nella coesione delle forme religiose, umane e morali dell’ebraismo orientale, che oramai è perseguitato e minacciato anche dalle vicende/fatti. La storia, che distrugge le forme forse illusorie di questa unità , è la metastoria, un diluvio universale biblico e nel contempo sconsolatamente moderno, come la cupa pioggia che caratterizza l’inizio della Grande Guerra : “ Cominciò a piovere. Era un giovedì. Il giorno successivo, dunque venerdì , la notizia stava attaccata già a tutti gli angoli delle strade. Era il manifesto del nostro vecchio imperatore Francesco Giuseppe, e diceva : “ Ai miei popoli “ ( I, 345 ). Così Roth descrive nel suo romanzo tardo LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI (1938) l’inizio della fine, l’inizio del crollo della vecchia Europa e di quell’impero asburgico che per lui e così tanti altri scrittori era stato un impero, una dimensione dell’anima ed una struttura spirituale ancor più che una compagine politica. Ma gli imperi cadono ed il messia non arriva : per l’ebreo dell’est Joseph Roth il crollo dell’Europa centrale diventa una parabola, una favola allegorica della lacerazione e solitudine dell’uomo moderno, che sradicato completamente, è abbandonato da tutte “ le madri “. Con ciò avvengono contemporaneamente l’emigrazione dei sopravvissuti degli Asburgo, la dissoluzione umana e religiosa degli ebrei dell’est ed il frastagliamento dell’uomo moderno – o per meglio dire dell’uomo occidentale – in generale.

Secondo la sua natura da scrittore epico Roth dovrebbe magnificare un ordine quale si trova nelle gerarchie omeriche dell’Olimpo e delle schiere achee, come Marthe Robert nel suo studio su Cervantes e Kafka ha notato con spirito acuto, o come compare nel Pantheon di Virgilio come garante di futura celebrità. Roth invece racconta sempre di un nostos, un ritorno a casa dopo una sconfitta ; il suo racconto comincia quando l’Iliade è già finita e la guerra di Troia è perduta, secondo la convinzione di Francesco Giuseppe che si “ perde esse (cioè le guerre) “ ( I, 202 ). E’ tipico di Roth di non essere mai riuscito, come appassionato sostenitore del mondo di ieri , a magnificare davvero l’impero, il passato. Quando lui richiama in vita il ricordo, allora finisce per descrivere involontariamente un mondo di fantasmi senza possibilità umane : il mondo della MARCIA DI RADETZKY è un limbo dei morti che soffoca nell’uomo ogni gioia ed energia, il mondo della STORIA DELLA 1002° NOTTE un affascinante, ma spietato ammassarsi di convenzioni che opprimono i deboli ed i buoni come la fragile Mizzi Schinagl. Hansjuergen Boening ( pag. 127 ) ha puntato il dito sull’ambiguità che il ripensare con malinconia al “ allora/un tempo “ , allo spesso e suggestivamente usato “ allora/un tempo “ in Roth suppone : il narratore, che scrive nel dopoguerra, ripensa con malinconia alla felicità di “ un tempo “ ma i personaggi del suo racconto, che vivono nel tempo di “ allora “, trovano questo tempo opprimente e guardano da parte loro indietro ad un “ allora “ che non c’è mai stato. Rapsodo della moderna sconsolatezza Roth s’identifica con la memoria collettiva di un lessico familiare, che è popolarmente conservativo e – in senso traslato – dialettale, e che anela alla storia di ieri, anche se la storia di ieri rimane sempre tramonto/fine, sconfitta, esilio. “ Viviamo proprio nel Golus “ è il rassegnato, imperturbabile e quasi umoristico sospiro dell’ebreo della diaspora di fronte ad ogni nuova disgrazia. Come nella mistica la cabala – in particolar modo in Yitzchaq Luria, che ha trasmesso/riportato la storica paura della cacciata degli ebrei dalla Spagna in concetti metaforici, - così anche per Roth il religioso mito dell’esilio diventa mito di riserva, simbolo dell’esilio dell’uomo moderno e di ogni essere vivente sotto un cielo di piombo alla cui fine non si apre alcun portone in un altro cielo, come pensano i deportati politici che nel suo romanzo IL PROFETA MUTO (ca. 1927-30 ) si dirigono in Siberia incatenati l’un all’altro ( pag. 97 ). L’Odissea è in Roth un ritorno a casa alla ricerca di una patria che non è da riacquistare in alcuna misura spaziale e temporale. Nel ciclo senza riscatto dell’esperienza storica la patria emerge solo in un presente storico atemporale in momenti di dimenticanza estatica che non riacquistano alcun passato determinato o determinabile dal punto di vista spaziale (che rimane sempre vuoto e desolato) ; questi momenti provocano invece una eliminazione del tempo determinando una mitica atemporalità della fanciullezza, dell’immediatezza e del rapporto completo tra l’anima e le cose. Il ritmo incalzato del racconto viene interrotto da una pausa che non è alcun richiamo in vita e racconto del passato, bensì una reale assenza di tempo, un’affascinante fanciullezza poiché questa è affascinata, che – come ha detto Maurice Blanchot – non scopre nulla e da nulla viene scoperta, ma è/esiste solo “ pur reflet (…) le rayonnement d’une image “. “ Ed era estate. Sì, era estate. “ (LA MARCIA DI RADETZKY, I, 20) Il biblico “ e “ ed il “ sì “ all’inizio trattengono un po’ ciò che non c’è mai stato, non l’estate priva di colori nella piccola città morava senza espressione, bensì la pura libertà di un ricordo indefinito, di un sospiro ed una spinta/impeto verticale per rompere il ciclo del ritorno storico, che è sempre uguale e tuttavia distruttivo. A Carl Joseph von Trotta, lo stanco nipote, appare nella mente l’mmagine del paese sloveno degli avi mai visto tra montagne sconosciute e sotto un sole altrettanto sconosciuto (I, 56); anche nel lutto per l’amico morto Max Demant il cuore di Carl Joseph von Trotta cerca rifugio nella presenza assoluta della “ patria “ : “ Si mise davanti alla carta dello stato maggiore (…) si trovava nell’estremo sud della monarchia, il bel tranquillo paese (…) E’ sera a Sipolje. Le donne stanno davanti alla fontana con fazzoletti copricapo di vari colori, tinte d’oro dal tramonto infuocato “ (I, 107). Oppure qui altri esempi : i momenti d’amore che vengono trattenuti nei pensieri della signora Taussig (I, 233) o la terra umida che cede sotto gli zoccoli dei cavalli (MARCIA DI RADETZKY; I, 123) oppure ancora le stelle che hanno un aspetto meno severo nel cielo orientale (IL FALSO PESO/IL PESO SBAGLIATO, 1937; I, 461) o il tempo del disgelo della primavera ucraina per il solitario Nikolai Brandeis nell’opera DESTRA E SINISTRA (1929; II, 562). Nel romanzo di Napoleone I CENTO GIORNI (1935) rimangono alla povera Angelina della sfortuna della storia e delle delusioni amorose solo l’eternità spirituale e fuggente della fanciullezza ad Ajaccio e le felici notti passate con il padre sulla barca (II, 698, 711).

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giovedì 19 maggio 2011

Saggi (VII parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Werner G. Hoffmeister

„Un genere molto particolare di simpatia“ – Stile narrativo e descrizione dei pensieri nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Al di fuori delle descrizioni di pensiero il ritratto satirico di Trotta viene arricchito da molti commenti diretti del narratore e da elementi descrittivi. Così dice per es. il narratore della barba a guancia di Franz Joseph von Trotta , che lui “ la portava come un pezzo d’uniforme … come prova delle sue idee dinastiche “ (26), e parla malignamente del “ passo elastico “ di von Trotta “ che i giornali erano soliti dire in lode del vecchio imperatore e che molti vecchi funzionari di stato avevano gradualmente imparato “ (143). In un dialogo con il dott. Skowronnek su suo figlio “ divide le sue preoccupazioni in principali e secondarie “ e si esprime nella caratteristica “ lingua ufficiale, lenta, un po’ nasale “ (223). Già nel primo capitolo del romanzo il narratore punta il dito sulle “ qualità medie, sempre sufficienti “ di Trotta , sul suo “ lucido e sincero intelletto “ e la sua “ scarsa fantasia “ (16). Il più caratteristico epiteto ornamentale che il narratore usa ripetutamente su Trotta è l’aggettivo “ semplice “: lo chiama una “ anima semplice “ (220,253), una “ natura semplice “ (224) e parla delle “ espressioni/concetti semplici “ che lui ha intellettualmente a disposizione.

La nostra considerazione sul modo di narrare tenuto nei riguardi dei due protagonisti del romanzo dovrebbe avere reso ben chiaro quanto il narratore, nonostante tutta la sua identificazione psicologico tecnico narrativa con i suoi personaggi, conservi i suoi propri valori e si mantenga ad un’irraggiungibile distanza critica dalle sue figure. Ciò che noi abbiamo constatato per i due protagonisti vale anche per tutti gli altri rappresentanti della monarchia presenti in questo romanzo. Soprattutto gli ufficiali intorno a Carl Joseph, ma anche l’imperatore stesso, vengono messi a nudo in parte ironicamente, in parte aggressivamente e satiricamente nella loro insufficienza. L’opinione che “ il cuore di Joseph Roth sia dalla parte della monarchia ormai sulla via del tramonto “ e che l’autore tracci “ uno schizzo degli strati sociali pieno d’amore e di compassione nei quali vengono alla luce con la massima chiarezza le tendenze al mantenimento della vecchia Austria “ (Lukacs, pag. 148), non regge ad una considerazione critica nei confronti dell’opera. E quell’interprete che non distingue tra i sentimenti del narratore e quelli dei personaggi e che giunge alla conclusione che il romanzo trasmette al lettore “ intatta “ la “ magia dell’epoca “ (Boening, pag. 185), non comprende la complessità tecnico narrativa ed il contenuto critico sociale dell’opera ad essa collegato.

Lo stile narrativo è sicuramente solo un aspetto del romanzo sotto il quale si racchiude il suo contenuto critico sociale. Un’analisi di gran lungo respiro delle componenti critico sociali dovrebbe porre la domanda fino a che punto gli elementi d’azione del romanzo episodicamente graziosi, considerati più da vicino davvero in primo piano siano in fondo solo un pretesto narrativo per una descrizione della situazione in cui si tratta più di una rappresentazione critica delle fragili convenzioni, usi, modi di pensare e d’agire nella monarchia decadente che del destino dei singoli personaggi. La vita di Carl Joseph va avanti in maniera triviale : storie d’amore, questioni d’onore, compagnie da circolo, bevute, gioco d’azzardo e debiti sono tipici processi di vita per il tenente imperiale. Ma Joseph Roth rende la trivialità degli avvenimenti tematicamente significativa poiché in essa sono rappresentate la mentalità e la compagine sociale dell’epoca. Forse Carl Joseph e suo padre devono venire considerati soprattutto come figure di contatto che introducono il lettore negli ambienti sociali – qua la casta degli ufficiali, là quella dei funzionari – che sono decisivi per lo spirito del tempo. Le più significative dal punto di vista artistico sono forse quelle scene della MARCIA DI RADETZKY che non portano avanti la trama/azione, ma che invece fanno luce sull’epoca nel tipo di quadri di genere. Sono scene in cui Roth fa vedere i costumi del periodo che precede la guerra concentrandosi su dettagli molto ricchi d’atmosfera e sui gesti ed i modi di dire delle persone; in questa occasione Roth mette in moto una procedura di realismo critico sociale di cui Theodor Fontane ed il giovane Thomas Mann sono i suoi precursori. A tali quadri di genere appartengono per es. le scene di casinò nelle quali vengono mostrate noia, monotonia ed assenza di spirito presenti nella vita delle classi privilegiate; il pranzo a casa del capitano distrettuale dove il rituale da festa copre l’assenza di relazioni umane; oppure i dialoghi del capitano distrettuale con il capo banda/direttore d’orchestra Nechwal e con altre persone di non par lignaggio del tutto improntati dalla convenzione e dalla coscienza di stato sociale. In queste scene non accade niente di essenziale, in esse non si delinea alcuna azione vera e propria. Ma con opprimente pregnanza in questi quadri si mette davanti agli occhi una compagine sociale ormai al tramonto di cui Robert Musil nell’opera L’uomo senza qualità (pag. 529) diceva : “ Non era accaduto niente nella Cacania, e prima si sarebbe pensato che questa è in effetti la vecchia, non appariscente cultura cacanica, ma questo niente era ora così inquietante come il non poter dormire o il non poter capire. “

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martedì 17 maggio 2011

Saggi (VI parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Werner G. Hoffmeister

„Un genere molto particolare di simpatia“ – Stile narrativo e descrizione dei pensieri nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Dall’esposto rapporto del narratore con Carl Joseph, come viene articolato nelle descrizioni di coscienza e nei commenti del narratore, ne esce in una lettura critica un’immagine meno positiva del personaggio del tenente. Non si può proprio parlare di una idealizzazione romantica dell’ufficiale imperiale. Invece Roth traccia l’immagine di un giovane ufficiale dalla debole forza di volontà, malaticcio e pallido, per molti punti di vista ingenuo e limitato, che su disposizione del padre e per l’onore della famiglia indossa l’uniforme, sebbene senta segretamente il desiderio della vita semplice dei suoi avi contadini sloveni. Come modello d’obbligo e di monito, così vuole l’onore della famiglia, deve valere per lui suo nonno, l’ “eroe di Solferino “ : “ Ci si doveva sempre fermare dal nonno per rinforzarsi un po’ “ (108). Dai suoi colleghi Carl Joseph si distingue per essere per una sfumatura più sensibile, malinconico e passivo di questi. Se si volesse infilare nell’immagine del personaggio anche la trama del romanzo allora ne verrebbe fuori che Carl Joseph prende raramente l’iniziativa, agisce raramente in modo sensato ed efficace, si lascia trasportare nella maggior parte delle situazioni ed è più l’oggetto degli eventi e delle circostanze che il loro soggetto. Le sue due storie d’amore cominciano col fatto che lui viene sedotto da una donna più anziana e matura di lui.

Le faccende d’onore nelle quali Carl Joseph viene coinvolto vengono sistemate da altre persone. L’unica azione militare che gli viene richiesta lo mostra senza testa e lo spinge ad un’analisi di sé stesso che deve venire annientata dalla “parte più elevata”. Anche i suoi debiti vengono saldati dall’imperatore. E quando Carl Joseph alla fine prende commiato dall’esercito, questa non è espressione di una convinzione a lungo maturata, bensì una reazione impulsiva ad una “ scena “ nella quale lui ha perso il suo autodominio. Già poco tempo dopo Roth ironicamente gli fa indossare com’è ovvio di nuovo l’uniforme quando scoppia la guerra. La morte di Carl Joseph, che ha luogo durante il ritiro dal suo battaglione mentre è intento a portare acqua ai suoi inferiori, sta sotto una strana luce: l’azione con la quale provoca la morte è avventata e militarmente irresponsabile; forse è la realizzazione di un latente desiderio di morte. Di gran lunga del tutto lontano da corrispondere all’idea di un’eroica morte in battaglia questa sembra piuttosto anche un gesto di valorosità e nobile umanità. Il rapporto del narratore e del lettore con Carl Joseph rimane ambivalente anche nella situazione di morte.

Carl Joseph von Trotta appartiene ad un tipo di personaggio letterario che gioca un ruolo significativo nella rappresentazione critico sociale sia del periodo prima della guerra tedesco che in quello austriaco. Nonostante tutte le variazioni individuali all’interno di questo tipo si lasciano rimandare a lui Botho von Rienaecker di Theodor Fontane ( Irrungen Wirrungen ), Woldemar von Stechlin e Schach von Wuthenow, il tenente Gustl e Wilhelm von Kasda di Arthur Schnitzler (Spiel im Morgengrauen), Joachim von Pasenow di Hermann Broch ed parecchi personaggi con ruoli secondari nell’opera del primo Thomas Mann. E’ il tipo del giovane ufficiale, il cui rapporto con le norme della società è divenuto problematico, perché lui non le può più interiormente giustificare; troppo debole, troppo sensibile, troppo passivo per potere esercitare la professione di ufficiale senza pensar troppo e senza estraniamento interiore; che durante lo scontro tra la richiesta di felicità personale e le richieste sociali non finisce per naufragare né finisce per giungere ad un compromesso privato insoddisfacente. Poiché i personaggi di questo tipo incarnano la mediocrità umana, ma sono al contempo appartenenti ad uno strato sociale privilegiato con coscienza di classe ben pronunciata ed un rigido codice d’onore allora si lascia in essi efficacemente creare una tensione tra l’essere personale e le convenzioni societarie sovraindividuali. Nel grado in cui Carl Joseph ed i suoi simili per spirito si sottomettono ai meccanismi della società ne consegue che la loro vita diventa vuota e priva di significato; contemporaneamente si manifesta la fragilità e la vuotezza delle norme e convenzioni a cui non si crede più.

Anche la vita del padre di Carl Joseph von Trotta viene rappresentata tutt’altro che come significativa. Anche il capitano distrettuale, un rappresentante davvero eccellente del pensiero conservatore dal punto di vista letterario, viene tenuto costantemente sotto il controllo critico del narratore. L’immagine caratteriale di questo personaggio statico, il cui raggio d’azione nelle vicende del romanzo risulta estremamente limitato, viene costruita dall’autore soprattutto in due modi : in primo luogo attraverso descrizioni di eventi di tutti i giorni, tipici, ripetibili e situazioni nella vita del capitano distrettuale ( esempi : pranzi rituali, dialoghi formali col figlio, comportamento arrogante con il personale e con persone di diverso grado sociale per nascita, corrispondenza rigido-formale con Carl Joseph, frequentazione di locali da caffè, passeggiate, partite a scacchi con il dott. Skowronnek.), in secondo luogo attraverso la riproduzione dei pensieri, opinioni e idee caratteristici di lui. Roth si comporta con il capitano distrettuale similmente a Musil nell’opera L’uomo senza qualità dove vengono presi in giro i punti di vista del generale von Bordwehr e del conte Leinsdorf attraverso analisi interiori ironicamente stilizzate. Il culmine di queste descrizioni di pensiero non si trova, come in Carl Joseph, nell’ambito privato e individuale della vita interiore, bensì nei punti di vista politici e sociali e nei cliché di pensiero di questo burocrate strenuamente conservatore. L’ironica aggressività di cui Roth ha fornito soprattutto queste parti del romanzo conferisce all’opera un effetto satirico fino ad ora troppo poco preso in considerazione. Nel capitano distrettuale l’autore caratterizza e prende in giro la realtà sociale dello stato monarchico che viene servito dal funzionario amministrativo, come dice il pittore Moser, in qualità di “ sostituto/vice “. Un tipico exposé di pensiero appare quando il signor von Trotta si preoccupa dell’influenza demoralizzante dei “ socialdemocratici di lingua tedesca “ : “ Tutto ciò che le parti disubbidienti della popolazione intraprendevano per indebolire lo stato, per offendere immediatamente o in modo indiretto Sua Maestà, l’imperatore, per rendere le leggi più impotenti di quanto comunque non lo fossero già, per rompere la tranquillità, per ferire il decoro, per schernire la dignità, per costruire scuole ceche, per imporre deputati dell’opposizione: tutto ciò erano azioni intraprese contro lui stesso, il capitano distrettuale “ (131). La forma stilistica del discorso vissuto serve qui a scoprire ironicamente il modo di pensare reazionario. Il narratore si ritira totalmente offrendo i punti di vista di Trotta in un stile da resoconto marcatamente obiettivo, ma proprio attraverso la secca oggettività i pensieri vengono minati criticamente e messi a nudo come dubbi. Un sottile sottotono umoristico, che si mostra soprattutto nella scelta del vocabolo e nel parallelismo sintattico lega il narratore ed il lettore contro il capitano distrettuale.

La rinnegazione del signor von Trotta dalla prospettiva dello sguardo introspettivo/interiore con l’aiuto del discorso vissuto può venire proposta anche in modo chiaramente comico. Quando il capitano distrettuale si decide a far visita a suo figlio nella lontana guarnigione di confine, si dice : “ Lui aveva un’idea inusuale del confine orientale della monarchia. Due dei suoi compagni di scuola erano stati trasferiti in quel lontano paese della corona a causa di penosi errori d’ufficio, ai cui bordi si sentiva probabilmente già urlare il vento siberiano. Orsi e lupi e mostruosità ancora peggiori, come pidocchi e cimici, minacciavano là la civilizzata Austria. I contadini ruteni facevano sacrifici agli dei pagani, e gli ebrei si scatenavano crudelmente contro i beni stranieri. Il signor von Trotta portò con sé la sua vecchia pistola a tamburo “ (142). E’ strano come un funzionario di provincia non proprio dotato di fantasia tenti di farsi un’idea dei pericoli che lo potrebbero minacciare in un’altra provincia non appena lascia il suo mondo “ civilizzato “. La scena è doppiamente comica perché il lettore sa che Trotta stesso proviene da una provincia di confine – quella meridionale – e che i suoi antenati erano contadini sloveni. Grazie all’atto eroico di suo padre Trotta è divenuto velocemente un austriaco fedele che guarda le province slave dall’alto verso il basso, con sfiducia ed arroganza.

Nella caratterizzazione interiore del capitano distrettuale accanto all’uso frequente del discorso vissuto si trova anche il resoconto di pensiero in cui il narratore viene fuori come mediatore :

“Le minoranze nazionali” erano per i suoi concetti nient’altro che grandi comunità “

d’individui rivoluzionari “. Sì, era circondato solo e soltanto da individui rivoluzionari.

Credette persino di notare che questi si moltiplicavano in un modo innaturale, in un

modo che non corrisponde all’essere umano. Per il capitano distrettuale era diventato

del tutto evidente che gli “ elementi fedeli allo stato “ divenivano sempre più sterili

dando alla luce sempre meno figli, come provavano le statistiche dei censimenti della

popolazione che lui talvolta sfogliava. (214)



La forma del discorso indiretto ( “ per i suoi concetti “, “ credeva “, “ per il capitano distrettuale era diventato del tutto evidente “ ) nonché i concetti racchiusi tra le virgolette sottolineano qui l’atteggiamento referendario critico del narratore che prende per così dire le distanze da quanto detto. Il risentimento di Trotta verso le minoranze nonché la sua sensazione di minaccia portata da elementi ostili allo stato vengono messi a nudo in modo satirico umorista all’inizio del 16 ° capitolo in un lungo passo di cui la nostra citazione dà solo un assaggio. L’agitatore Cak, che “ apparteneva al partito socialdemocratico e tuttavia nel suo reggimento era divenuto caporale “ (214), gli dà da pensare che “ tutto il mondo consista da cechi : una nazione che lui considera ostinata, testarda e scema “ (214). Nella figura del capitano distrettuale Joseph Roth dà un importante contributo alla rappresentazione letteraria della mentalità prefascista che si stava sviluppando all’interno dell’impero.

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Saggi (V parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Werner G. Hoffmeister

„Un genere molto particolare di simpatia“ – Stile narrativo e descrizione dei pensieri nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Anche là dove Carl Joseph viene coinvolto nella trama del romanzo, dove nella sua avventatezza ed ingenuità s’invischia nel caso d’onore del suo amico, il medico di reggimento dott. Demant, il narratore lo mostra prevalentemente dall’interno, e più precisamente come personaggio che riflette, fantastica e prova compassione. Come così spesso quando Carl Joseph è sconcertato, emerge la figura d’obbligo del nonno nella sua immaginazione: “Che cosa avrebbe fatto l’eroe di Solferino in questa situazione?” (90).Il lettore non può fare a meno d’intendere questo pensiero che ritorna in modo forzato come ironico rimando del narratore all’impotenza di Carl Joseph. L’unica azione nella quale Carl Joseph si mostra deciso è quando in una lettera informa suo padre sugli avvenimenti. Dopo si dice laconicamente:”Ora sembrò al tenente di aver superato il momento più difficile” (90). Il giovane tenente ulano non fa alcun tentativo, agendo – un po’ da mediatore – d’intervenire nel caso provocato da lui, si dà invece a lamenti egocentrici sull’ingiusto destino. I suoi pensieri che lo tormentano culminano nell’idea che la morte lo perseguiti nel suo cammino di vita: “Come le pietre miliari sulla via di altre persone sulla via di Trotta giacevano le pietre sepolcrali! Lui era certo che non avrebbe mai più rivisto l’amico proprio come non aveva più rivisto Caterina. Mai più! Davanti agli occhi di Carl Joseph si stendeva questa parola senza sponda né confine, un mare morto di sorda eternità. Il piccolo tenente strinse il debole bianco pugno contro il grande ingranaggio nero che faceva rullare avanti le lapidi “(91). In questo passo percepiamo di nuovo non soltanto Carl Joseph, bensì anche il narratore ironico, passo in cui si mescolano il discorso vissuto ed il resoconto di pensiero. L’intensità dell’espressione dei sentimenti ed il metaforismo ad alta tensione devono venire ascritti al campo del vissuto di Carl Joseph; proprio per il fatto che il narratore riproduce lo stile di pensiero di Carl Joseph in modo referente questi finisce per distanziarsi interiormente da lui, ed al lettore viene fatto capire che gli si presenta davanti a sé un’autodrammatizzazione patetica di Carl Joseph legata alla situazione. Alla fine la superiorità del narratore viene pronunciata apertamente nell’arrogante constatazione:” Il piccolo tenente strinse il debole pugno bianco …” Poco dopo il narratore fa ripetere a Carl Joseph questo gesto: “Strinse il suo pugno, andò alla finestra per alzarlo al cielo. Ma invece alzò solo i suoi occhi “ (91). L’interiore stato d’agitazione di Trotta finisce con questo gesto sostitutivo che per il lettore rappresenta un segno della sua debolezza ed impotenza. Il narratore porta il suo personaggio all’esagerazione e all’autodrammatizzazione non solo nello stile di pensiero e nella mimica, anche nei contenuti lo corregge: poco più avanti fa incontrare Carl Joseph col dott. Demant, in questo frangente l’enfatico “Mai più!” di Carl Joseph viene effettivamente ripreso indietro.

Questo stratagemma narrativo, mettere in bocca al personaggio un’affermazione presumibilmente errata e con ciò richiedere al lettore un atteggiamento critico, si trova spesso nel modo più effettivo durante la scena nella quale Carl Joseph si gode la magnificenza e la fastosità del Corpus Domini a Vienna e dalla magnificenza esterna dello spettacolo trae la conclusione sulla forza vitale della monarchia: “No, il mondo non era finito, come Chojnicki aveva detto, si vedeva con i propri occhi come vivesse ancora!” (181). Il narratore segnala al lettore che Carl Joseph è vittima di un’illusione ottica.

I desideri, le nostalgie e le illusioni di Carl Joseph vengono riferiti dal narratore in modo ugualmente così critico come i suoi problemi e le sue depressioni. La triste e monotona esistenza del tenente nella provincia orientale dell’impero va avanti senza avvenimenti degni di nota che avrebbero la funzione d’accendere la sua gioia di vita e le sue speranze. Solo la sua relazione con la signora von Taussig gli dà di tanto in tanto motivo per un giudizio positivo sulla sua esistenza ed il suo proprio valore.

Sì, è così che iniziò ciò che lui chiamava “vita”, e ciò che a quel tempo era forse anche
vita:il viaggio nella comoda vettura tra gli intensi odori della primavera matura, a
fianco di una donna dalla quale si veniva amati. Ognuno dei suoi sguardi delicati gli
sembrava giustificare la sua giovane convinzione di essere un uomo eccellente dalle
tante virtù e persino un “famoso ufficiale” nel senso in cui si usava questa parola
all’interno dell’esercito. Si ricordò di essere stato triste quasi per tutta la sua vita,
schivo, si poteva già dire: amareggiato. Ma così come ora lui credeva di conoscersi, non
capiva più perché era stato triste, schivo ed amareggiato. (183)

Il narratore ed il lettore sanno che Carl Joseph “ non vive a pieno la propria vita ”, che l’amore della signora von Taussig è dividibile e volubile e che lui può essere davvero un “famoso ufficiale” nel senso del gergo militare, ciò vuol dire un mediocre rappresentante della casta ed assolutamente privo di quelle “tante virtù” che lui tende ad assegnarsi. L’autostima di Carl Joseph è sottoposta ai suoi stati d’animo e dipende dalle varie situazioni del momento, la coscienza della sua continuità di vita è limitata, l’alta stima di sé e l’autocompassione si alternano l’un con l’altra. Non appena viene abbandonato dall’alta stima di sé, e precisamente già poco dopo, dice a sé stesso “ che lui già da tanto tempo non era più maestro della sua fortuna, e non era più un eccellente uomo con virtù di ogni tipo. Era piuttosto povero e misero e pieno di malinconia …” (186).

L’opinione critica del narratore su Carl Joseph si è mostrata nei citati passi di testo soprattutto nel fatto che il narratore mantiene in piedi la sua propria prospettiva di giudizio e valutazione nonostante tutte le apparenti identificazioni totali con la sua figura. L’identificazione è una parte della tattica narrativa psicologica, è una parte della “simpatia letteraria” che richiede ogni realistica rappresentazione umana a metà. Tuttavia non significa che il narratore si perde nella sua figura e che il suo orizzonte si riduce all’ampiezza d’orizzonte del personaggio. L’orizzonte del narratore e con lui quello del lettore è anzi di gran lunga superiore a quello della figura, i suoi valori sono fondamentalmente diversi da quelli di Carl Joseph. Poiché i confini tra mentalità del narratore e mentalità dei personaggi non si cancellano mai interamente al lettore rimane intatta un’istanza narrativa obiettiva dalla quale lui riceve segnali per giudicare il personaggio e l’andamento narrativo. Poiché il narratore in questo genere di descrizione di coscienza prende di mira non solo il suo personaggio, bensì contemporaneamente anche il lettore si può parlare di una prospettiva di narrazione ambivalente e spezzata.

Il narratore esprime la sua superiorità critica spesso anche affatto velatamente e senza ambivalenze nel commento diretto. Nelle molte situazioni in cui la limitatezza spirituale di Carl Joseph o la sua impotenza diventano evidenti il narratore schernisce apertamente il suo personaggio. Quando Carl Joseph riceve l’incarico di sopprimere la dimostrazione degli operai, un ufficiale descrive i lavoratori di fabbrica come “poveri diavoli” e aggiunge : “ Forse alla fine hanno ragione!” La reazione di Carl Joseph viene riportata così: “Al tenente Trotta non era ancora venuto in mente che questi erano dei poveretti e che potevano avere ragione. L’osservazione del capitano gli sembrava ora giusta, e lui non dubitava più sul fatto che fossero poveri diavoli” (191). Durante gli scontri tra l’esercito comandato da von Trotta e gli operai il tenente viene mostrato in prevalenza in stato pensante ed irrisoluto. In un passo si dice con arroganza e compassione: “E come stava davanti alla sua colonna il povero tenente Trotta … “ (194), e un’altra volta il narratore si prende gioco del fatto che su Trotta “ sia giunta la forza sublime di guardarsi in faccia “ (195). Nell’unica azione militare che nel romanzo viene richiesta a Trotta il narratore concede alle sue riflessioni molto più spazio che ai tumulti stessi. Solo all’ultimo secondo Carl Joseph dà l’ordine di sparare, quando il rappresentante dell’amministrazione civile lo incita a ciò.

La limitatezza intellettuale di carl Joseph viene messa a nudo senza ambivalenze dal narratore quando Carl Joseph si mette a riflettere sul fatto che esistono altri stati su cui l’imperatore Francesco Giuseppe non regna dove ci sono altri eserciti, altre guarnigioni ed innumerevoli altri tenenti: “ Era altamente sconcertante concedersi a tali pensieri; per un tenente della monarchia ugualmente così sconcertante come per uno di noi riflettere sul fatto che la Terra sia solo uno dei tanti milioni e bilioni di corpi celesti “ (188). In un tale commento, che prende di mira l’orizzonte culturale di un tipico rappresentante del corpo ufficiali austriaco, Roth si avvicina ad uno stile satirico che è caratteristico dell’opera di Robert Musil L’uomo senza qualità.

In molte situazioni il narratore rinnega il suo personaggio con una piccola svolta, spesso nella forma di un umoristico o ironico colpo ai fianchi, così per es. quando parla del “ cervello militare “ di von Trotta (245) oppure delle “ numerose situazioni penose … dove era solito appianare “ (110), oppure del fatto che la sua amante lo faceva “ più giovane, proprio come lui stesso faceva, più stupido e sconcertato, proprio come faceva lui “ (232).

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sabato 14 maggio 2011

Saggi (IV parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Werner G. Hoffmeister

„Un genere molto particolare di simpatia“ – Stile narrativo e descrizione dei pensieri nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Ora è tuttavia noto che Joseph Roth negli anni trenta tendeva ad essere sempre più di vedute conservatrici e monarchico legittimiste e che di fronte al dilemma politico del tempo sosteneva la restaurazione della monarchia. Tuttavia ciò non ci dovrebbe portare a dire erroneamente che lo scrittore Joseph Roth avrebbe scritto la MARCIA DI RADETZKY con l’intenzione di idealizzare melanconicamente il tramonto della monarchia. L’immagine dell’epoca che viene schizzata nella MARCIA DI RADETZKY è invece una straordinaria sintesi del senso storico di Roth e del suo senso per la forma artistica. Considerata pure tutta la personale simpatia che Roth ha espresso nei riguardi di questo oggetto lui ha voluto trattare questo oggetto – la cultura da cui lui stesso proveniva – con una obiettività e distanza da narratore, cosa che rende il romanzo non solo un “ grande canto del cigno sulla vecchia Austria “ bensì al contempo un ritratto d’epoca spietatamente critico, sì in parte anche satirico nel quale l’autore esprime una condanna a morte della vecchia cultura.

Il tempo in cui “ Dio ritirò il credito alla Cacania,” certo viene trattato da Roth non del tutto con l’aggressività satirica che caratterizza l’opera Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, e nella MARCIA DI RADETZKY non domina nemmeno la critica ideologica saggistica del pensiero di massa che Robert Musil ha esercitato nell’opera L’uomo senza qualità. La critica sociale di Roth, realistica e del tutto legata all’oggetto della narrazione è invece piuttosto simile a quella di Hermann Brochs nell’opera Pasenow o il romanticismo. Se si volesse puntare il dito sugli avi di Roth che similmente a lui traggono fuori dai personaggi e dal loro ambiente la rappresentazione critica del periodo imperiale, allora bisognerebbe citare Arthur Schnitzler e Theodor Fontane. Con il primo lui ha in comune lo sguardo psicologico affinato, con il secondo l’arte della descrizione dell’ambiente.

L’ “obiettività del narratore” e la distanza critica con cui Roth crea il mondo della MARCIA DI RADETZKY si lascia riconoscere nel miglior modo nella maniera in cui il narratore riproduce i flussi di pensiero e gli stati di coscienza dei suoi personaggi. Si constata che l’atto dell’identificazione immedesimatrice con il personaggio risulta per lo più al contempo un atto di presa di distanza critica in cui il narratore mantiene la sua capacità di riflessione e dà ad intendere al lettore certe riserve nei riguardi del personaggio. Ciò vale in particolar modo per le molte descrizioni degli stati di coscienza dedicate ai due protagonisti. Poiché i due personaggi, tanto Carl Joseph quanto suo padre, sono dei personaggi passivi, riflessivi ed introversi vengono caratterizzati meno da un’agire positivo che da reazioni interiori su circostanze ed eventi particolari. Come figure statiche, a cui non è concesso alcuno sviluppo vero e proprio o maturazione, questi vengono definiti più attraverso la loro vita interiore che attraverso azioni o avvenimenti.

“Ha vissuto in prima persona tristi eventi, ma non ne ha tratto vantaggio” (177)7 – così giudica la signora von Taussig il suo amante, Carl Joseph, e sembra con ciò parlare anche per il narratore, poiché verso la fine del romanzo, quando Carl Joseph ha alle spalle la maggior parte “degli eventi che ha vissuto in prima persona” , suona come una conferma di questo giudizio quando il narratore si rivolge al lettore in un commento diretto e dichiara: “Il tenente Trotta non aveva fatto ancora molte esperienze nella sua vita” (248). L’arroganza critica con cui il narratore parla qui del suo protagonista è caratteristica dell’atteggiamento narrativo e si trova anche in molte descrizioni dei pensieri di Carl Joseph. Quando il giovane cadetto durante le ferie si mette ad ascoltare nella casa paterna la musica militare domenicale il lettore riceve per la prima volta visione interna nei pensieri acquisiti di Carl Joseph sulla famiglia imperiale, la professione d’ufficiale e la morte da soldato:

Carl Joseph stava nascosto dietro il fitto fogliame della vite della terrazza accogliendo

la musica della cappella militare come un omaggio. Si sentiva un po’ imparentato con

gli Asburgo il cui potere era qui rappresentato e difeso da suo padre e per il quale lui

stesso sarebbe dovuto una volta partire, alla guerra e verso la morte. Conosceva i nomi

di tutti i membri delle casate più alte. Li amava tutti quanti sinceramente, con un cuore

devoto da fanciullo, prima di tutti gli altri l’imperatore, che era d’animo buono e grande,

sublime e giusto, infinitamente lontano eppur così vicino e particolarmente affezionato

agli ufficiali dell’esercito. La cosa più bella sarebbe stata morire per lui mentre veniva

intonata una musica militare, il più facilmente con la Marcia di Radetzky.(23)



Il narratore passa quasi impercettibilmente dalla prospettiva di veduta esterna a quella di veduta interiore. Alla prima frase tenuta ancora in forma di resoconto segue la riproduzione indiretta dei pensieri trasmessa dal narratore (“Si sentiva …”), quindi dalla terza frase in poi la riproduzione dei pensieri non mediata nella forma del discorso vissuto. Indipendentemente dalla situazione le frasi ridate nel discorso vissuto si lascerebbero interpretare anche come constatazioni dell’autore, tuttavia la loro posizione induce il lettore ad ascriverle al campo di coscienza di Carl Joseph. Ma la voce del narratore rimane chiaramente percepibile anche nel discorso vissuto; il sottotono critico arrogante che relativizza le idee di Carl Joseph si rivela in modo particolare nell’ammassarsi degli aggettivi riferiti all’imperatore “benevolo … sublime … giusto” e si scopre a pieno nell’ironia pungente dell’ultima frase. Il soggetto “si”, che qui rappresenta Carl Joseph ed i suoi simili, allude umoristicamente al fatto che il quindicenne fantasticante patriota si sente membro di una comunità superiore. Al passo di testo citato segue, sempre nel discorso vissuto, una riproduzione ricca di aggettivi e di allitterazioni dell’idea che Carl Joseph si fa della sua morte drammatica da eroe – un’anticipazione parodistica della sua vera morte che lui sperimenta più tardi in prima persona in circostanze davvero prosaiche, anche se tra le note immaginate della Marcia di Radetzky.

Per il modo di narrare che compare nel passo di testo citato è decisivo il fatto che il narratore si senta certo da una parte dentro il suo personaggio facendo presente al lettore lo stato di coscienza di questo, ma che egli d’altra parte in questo atto d’identificazione conservi la sua identità in qualità di narratore che giudica e dà la sua propria valutazione mostrando in contatto col lettore le sue riserve critiche nei riguardi del personaggio. Il narratore non si abbandona senza riserve ai pensieri ed i sentimenti di Carl Joseph, ma rimane un referente critico. Nonostante il rapporto intimo il narratore mantiene i suoi propri valori al di fuori e al di sopra del suo personaggio. Nel caso citato le ribollizioni patriottiche del giovane cadetto vengono sì rappresentate in certo qual modo con piena comprensione, tuttavia vengono al contempo smascherate come proprie del periodo della pubertà e di cliché. Il passo citato è una parte dell’esposizione del romanzo in cui vengono rappresentati gli avvenimenti caratteristici della fanciullezza di Carl Joseph e l’atmosfera presente nella casa paterna. Due motivi essenziali che accompagnano l’intera trama del romanzo e che sono caratteristici del mondo dei pensieri e dei sentimenti di Carl Joseph compaiono qui già in forma compressa: il motivo della Marcia di Radetzky ed il motivo della morte. Ambo i motivi sono legati alla figura dell’imperatore.

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Saggi (III parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Adolf D. Klarmann

L’immagine dell’Austria nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

La cosa che più scuote proprio nella sua definitezza è l’accettazione rassegnata della fine, soprattutto nel vecchissimo imperatore che certo si gode le manovre ancora con la gioia fanciullesca della senilità, ma tuttavia da tipico austriaco qual è, accetta senza protesta o lamentela ciò che deve venire. Mentre osserva col binocolo la sfilata del suo amato esercito è al contempo anche in lutto per la fine di questo che si avvicina:

Poiché lo vedeva già andato in pezzi e disseminato, diviso tra i tanti popoli del suo

esteso impero. Per lui stava tramontando il grande sole dorato degli Asburgo,

andato in frantumi nell’abisso primordiale dei mondi, cadeva a pezzi in innumerevoli

piccole sfere solari che dovevano risplendere come stelle autonome di nazioni

indipendenti. “Non si addice loro di venir governati da me”, pensava il vecchio. “Qua

non ci si può fare niente”, aggiunse in silenzio. Poiché lui era un austriaco. (211)



In quest’ultima frase si trova la summa del darsi al destino di stampo barocco austriaco.

Il raggiante giovane imperatore di Solferino, al quale durante la sua mitica lunga vita non era stato risparmiato niente, è ora sopravvissuto a sé stesso. Ma finché gli è rimasta la forza di tirare su un respiro continua a vivere il suo regno con gli ultimi spasmi. Una grande figura storica è ora divenuta un vecchio distante dalla realtà al quale il suo tempo volta le spalle, solamente troppo pronto a non badare al nuovo. Una figura commovente, con la goccia al naso, degno di commiserazione e già un po’ confinante con il ridicolo.

Riassumiamo: All’inizio del romanzo siamo nel bel mezzo del diciannovesimo secolo. Alla reazione riesce ancora soffocare le conseguenze del 1848, e si ha quasi l’impressione che l’orologio della progressione storica sia retrospostabile. Ma presto si fa notare già un barcamenarsi politico a cui l’onesto eroe di Solferino deluso non vuole più partecipare ed indispettito prende commiato dal suo esercito. Successivamente viviamo ancora le dorate giornate autunnali del risorgimento austriaco, tuttavia similoro. Nel simbolismo ironico la Marcia di Radetzky intonata dalla cappella di reggimento davanti al capitano distrettuale può ancora suscitare negli ascoltatori la sensazione elevata del marciare di pari passo con gli altri, delle gambe che si alzano ritmicamente e delle teste che annuiscono, e nei militari in congedo i ricordi eroici dei giorni gloriosi delle manovre. Ma al contempo si fanno riconoscere già chiaramente da una parte i moti irredentistici e dall’altra gli inizi dell’irreverenza socialista davanti ai vecchi sacri valori. Questi storici mutamenti vengono rivissuti in modo significativo non come ci si aspetterebbe a Vienna, capitale dell’impero e residenza dell’imperatore, bensì proprio nelle province slave, culminando nell’estremo lembo orientale dell’impero. Così accade anche alla fine del mondo austriaco, già al confine russo, che si spara su lavoratori che scioperano. La forza decisionale e la disciplina dell’esercito sbattuto là sotterra la triste noia di là, questa sprofonda nell’alcool e nel gioco d’azardo. E là si può sperimentare in prima persona anche nel bordello la più alta parodia del patriottismo nell’immagine della salma eterna dell’imperatore con gli occhi blu porcellana sporcata dalle mosche.

Joseph Roth percorre il tragitto da Solferino a Sarajevo senza sentimentalismo. Nonostante il suo entusiasmo per la monarchia lo percorre tuttavia in ultima analisi con una certa soddisfazione ironica. La sua MARCIA DI RADETZKY è uno spaccato di un mondo al tramonto in cui l’uomo non tragico cerca a tastoni un senso esistenziale, una fine per le cui conseguenze il mondo si ammala, e la cosa ancor più tragica è quando questa ci viene incontro dal romanzo.

Werner G. Hoffmeister

„Un genere molto particolare di simpatia“ – Stile narrativo e descrizione dei pensieri nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

“L’obiettività del narratore richiede un genere molto particolare di simpatia per le persone da descrivere, una simpatia letteraria di cui può gioire a seconda delle circostanze persino un furfante.” (III,250). Questa massima, che si trova in un feuilleton di Joseph Roth, mette in evidenza una tensione che costituisce il suo modo di narrare: la tensione tra obiettività narrativa, distanza critica e riflessione ironica da una parte e quella ben sentita “simpatia letteraria” per i personaggi dall’altra. Nel capolavoro di Roth, la MARCIA DI RADETZKY, non ci sono tuttavia “furfanti” che avrebbero da strappare al narratore la simpatia letteraria, proprio come non ci sono eroi che fino dall’inizio avrebbero diritto alla simpatia. Invece sia i due protagonisti, Carl Joseph von Trotta e suo padre, il capitano distrettuale, che la maggior parte dei personaggi secondari appartengono all’uomo medio. Né il capitano distrettuale irrigidito nel modo di pensare e di comportarsi tramandato né suo figlio Carl Joseph, incapace di vivere e irrisoluto, considerati empiricamente, rappresentano una figura attraente o simpatica. I due diventano interessanti e significativi dal punto di vista letterario per la funzione da loro svolta nell’intera opera, cioè per il fatto che vengono elevati a tipici rappresentanti della decadente monarchia asburgica, e ciò attraverso il modo della rappresentazione narrativa.

Il procedimento narrativo con il quale Roth suscita nel lettore della MARCIA DI RADETZKY la “simpatia letteraria” per le figure poggia in gran parte sulla prospettiva assai mobile del narratore onnisciente. Questo narratore, che non appare nell’opera come personaggio, ma la cui voce è spesso percepibile, considera le sue figure sia dall’esterno che dall’interno, questi trasmette avvenimenti ed informazioni nonché pensieri, sentimenti, stati d’animo e ricordi delle figure ed ha accesso ai moti dell’anima più delicati ed intimi. Non solo le vicende interne di Carl Joseph e di suo padre, ma anche i pensieri ed i sentimenti di altre figure vengono trasmessi al lettore dalla prospettiva che guarda all’interno, con l’aiuto del discorso vissuto e del resoconto di pensiero. Questi non dà nemmeno una limitazione di carattere sociale nella scala delle descrizioni interne; l’intenzione di Onofrio di disertare dall’esercito, ed il triviale pensiero di successo del consulente commerciale Knopfmacher vengono aperti al lettore ugualmente dall’interno come le associazioni di pensiero del vecchio imperatore Francesco Giuseppe che di notte fantastica sul futuro dell’impero, sul suo raffreddore tenuto nascosto al mondo esterno e sulle gioie delle manovre che avranno luogo nell’immediato futuro.

La personale prospettiva narrativa che domina gli ampi tratti del romanzo costringe il lettore nello spazio interno, nel campo del vissuto di ogni personaggio. Questa crea un rapporto intimo tra i due e fa considerare al lettore inoltre il mondo rappresentato nel romanzo ( gli avvenimenti, la compagine sociale, le convenzioni sociali )con gli occhi dei personaggi ivi compresi. Accanto alla prevalente creazione scenica delle singole fasi narrative nonché del ricchissimo uso del dialogo la prospettiva narrativa personale è il mezzo narrativo più importante per rendere presenti le singole situazioni narrative, per schiudere lo spazio sociale e storico del romanzo dal punto di vista prospettico e per far simpatizzare il lettore con i pensieri, i sentimenti ed i conflitti dei personaggi. L’interesse e la simpatia del lettore per una esistenza umana in sé e per sé così mediocre come quella del tenente Carl Joseph von Trotta vengono creati attraverso una tattica narrativa che costringe il lettore ad una continua per così dire puntuale identificazione con il personaggio condizionata dalla situazione. Lo stato di solitudine di Carl Joseph, la malinconia e l’autocompassione, le sue paure, i suoi desideri e le sue illusioni, le sue riflessioni sui suoi avi, le sue pene d’amore nonché le sue difficoltà nelle faccende d’onore: tutto ciò viene messo al lettore davanti agli occhi attraverso la coscienza di Carl Joseph. Allo stesso modo viene suscitato l’interesse del lettore per il personaggio del pedante, corto di vedute e conservatore capitano distrettuale; le sue preoccupazioni per il figlio, l’onore della famiglia, le tradizioni monarchiche nonché la sua paura di fronte a sintomi di decadimento politico e culturale ci vengono mostrati per mezzo di diverse tecniche della descrizione di coscienza. L’interesse del lettore viene manipolato con l’aiuto della prospettiva narrativa personale a vantaggio del singolo personaggio. Per mezzo di questa tecnica narrativa si apre al lettore un mondo umano interiore estremamente ricco di contenuto, creato prospetticamente, che dal canto suo diviene specchio di quella mentalità generale e di quel clima culturale che sono caratteristici della rappresentazione della fase finale della monarchia austro-ungarica.

Al lettore politicamente conservatore della MARCIA DI RADETZKY non risulterà difficile riconoscere in parte la sua propria malinconia ed i suoi propri sentimenti nella malinconia e nei sentimenti dei personaggi del romanzo. Egli tenderà troppo facilmente a vedere nel romanzo un’apologia o persino un’apoteosi della tramontata monarchia. Ma Marcel Reich-Ranicki ha espresso un ammonimento che colpisce nel segno quando ha osservato su Roth: “Ai suoi lettori lui ha reso sempre la vita facile ed ai suoi interpreti l’ha resa sempre difficile.” Per il nostro contesto ciò potrebbe significare: il lettore viene troppo facilmente tirato dentro in un rapporto di simpatia con i personaggi del romanzo, invece all’interprete viene posto il compito d’identificare questo rapporto di simpatia come tecnica letteraria, come arrangiamento narrativo e di riconoscere la critica “obiettività del narratore” con la quale Roth ha creato il romanzo come correttivo artificiale.

Non si giustifica la struttura complessiva del romanzo e la sua intenzione se, come fa Hansjuergen Boening (pagg. 32, 37), si taccia il narratore come “strenuo conservatore” e lo si ritiene un “laudator temporis acti” che “idealizza” il mondo della doppia monarchia austro-ungarica “ in modo malinconico e indulgente”. Boening (pag. 99) constata giustamente che il narratore tende ad “appoggiare” psicologicamente i suoi personaggi, ma giunge all’ingannevole conclusione che non ci sarebbe alcuna determinante differenza tra la mentalità del narratore e quella dei personaggi: “ Assumendo un atteggiamento di lutto insieme ai personaggi il narratore mostra il crollo di un’età dell’oro.” Anche per Hartmut Scheible (pag. 68), che nega l’onniscenza e la capacità di riflessione del narratore, questo è “ entrato nella sfera dei personaggi del romanzo, è sconcertato come loro, a lui è rimasto il gesto dell’onniscenza, neppure questo stesso.” Ed anche Georg Lukacs, che dà alla MARCIA DI RADETZKY un alto valore artistico e critico sociale, trova nel narratore “ lutto sentimentale “ e “ simpatia romantica per la monarchia asburgica.”

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giovedì 12 maggio 2011

Saggi (II parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Adolf D. Klarmann

L’immagine dell’Austria nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Il mondo del capitano distrettuale, che lui ritiene suo più alto dovere e missione difendere dai nemici interni, viene visto da questi messo sottosopra e riempito di buchi per mano dei separatisti ed irredentisti ostili alla monarchia, che conducono il loro gioco torbido e da traditori con simulazioni troppo ingannevoli. Lui deve stare attento a questi con la più grande ed intransigente severità per prevenire il diabolico tradimento. Il nemico minaccia dall’interno e dall’esterno. Questo fedele servitore del suo padrone deve andare dappertutto alla caccia di fantasmi.

Ieri c’era stato di nuovo un raduno di lavoratori cechi. Era stata annunciata una festa

di rappresentanti., delegati provenienti dagli “stati slavi” – con ciò s’intendevano Serbia

e Russia, ma nel dialetto ufficiale non erano stati mai citati – sarebbero dovuti venire

già il giorno successivo. Anche i socialdemocratici di lingua tedesca si fecero notare.

Nella filanda un operaio fu picchiato dai suoi colleghi, presumibilmente e secondo i

resoconti di spionaggio, perché si rifiutava di entrare nel partito rosso. (131)



Il capitano distrettuale si pone dunque come difensore dell’ordine superiore, della supremazia e dignità dell’imperatore in un modo che corrisponde all’ethos dello stretto orizzonte del funzionario, modo che non lo fa nemmeno esitare a ricorrere alla violenza tutte le volte che lo ritiene necessario. La sua presa di posizione è combattiva. Del tutto diverso è il conte Chojnicki. Lui sa molto tempo prima dello scoppio della guerra che l’Austria è persa. Gentleman e cavaliere, quale egli è, il suo sapere non esercita alcuna influenza sulla sua fedeltà fino all’amara fine che supera persino i suoi presagi pessimistici e fatalisti che mettono in evidenza il non poter sfuggire al destino storico già segnato. Prima ancora che il colpo di Sarajevo sia partito lui ha rinunciato rassegnato alla sua Austria, al luogo d’azione della sua vita, allo spazio vitale che per lui significa tutto senza aver trovato nella Polonia o nell’Ucraina un controvalore. Con la fine dell’Austria lui perde l’unica patria e non conosce più nessun’altra. Certo letteralmente parlando al momento la monarchia esiste ancora, con il suo esercito ed i suoi funzionari, ma per quanto tempo ancora?

Ma questa sta cadendo a pezzi ancora in vita. Si disgrega, si è già disgregata! Un

vecchio, destinato a morire, messo in serio pericolo da ogni raffreddore, mantiene il

vecchio trono, per il semplice miracolo di poter sederci ancora sopra. Per quanto tempo ancora? Per quanto tempo ancora? Il tempo non ci vuole più! (150)



Certo gli argomenti del conte confondono, proprio per sua voce sembra qui parlare la negazione Rothiana, in modo più sconvolgente. Ma nonostante un tacito assenso il capitano distrettuale non si può piegare di fronte ad essi e tanto meno può comprendere il nuovo tempo che si fa sempre più largo. Tanto più tragica è la scomparsa della sua stirpe nei primissimi giorni di guerra realizzatisi nella morte del suo unico figlio, il tenente Carl Joseph von Trotta. Per naturale, ovvio senso di correttezza, con un gesto istintivo di riparazione contro la crudeltà militare cieca e priva di senso che vede nella sua perversione un traditore dietro ogni slavo dell’est, slega dal palo tre impiccati ucraini, due contadini con il loro pope, e li seppellisce con le proprie mani. Von Trotta trova la morte nella grandine di proiettili provenienti dagli spari russi allorché si accinge a portare acqua a soldati ucraini che non possono estinguere la loro sete nel pozzo poiché questo è intasato dai cadaveri. Egli non muore da eroe, ma non sfugge neppure alla morte, redenzione da tutti i conflitti.

Il capitano distrettuale se ne sta là tutto solo poiché la morte del figlio gli lascia presagire l’immanente futura morte dell’imperatore.

Con precisione che non lascia spazio a più interpretazioni Joseph Roth illumina più chiaramente ed in maniera più definitiva il processo di disgregazione della monarchia che s’innesca improvvisamente in modo acuto prima dello scoppio della guerra nel reportage sulla festa estiva della cavalleria tenutasi presso il conte Chojnicki nella quale irrompe improvvisa la notizia dell’attentato di Sarajevo. Mentre gli aristocratici ungheresi salutano con gioia non nascosta la morte del principe al trono Francesco Ferdinando amico degli slavi e della sua consorte: “Abbiamo convenuto, la mia gente ed io, che possiamo essere ben felici quando il porco è morto!” (279), il capitano di cavalleria sloveno Jelacich fedele all’Austria protesta contro l’arroganza ungherese, un connazionale dunque dei von Trotta, che odia così tanto l’Ungheria quanto ama la monarchia. Joseph Roth allude qui abilmente alla dura oppressione delle minoranze da parte dell’Ungheria rispetto al trattamento relativamente mite e a grandi linee piuttosto tollerante in Austria. Al contrario degli ufficiali ungheresi Jelacich è un vero e proprio patriota austriaco:

Una parte dei suoi compagni di stirpe, gli Sloveni e i loro cugini, i Croati, viveva sotto

il diretto dominio ungherese. Tutta l’Ungheria separava il capitano di cavalleria

Jelacich dall’Austria, da Vienna e dall’imperatore Francesco Giuseppe. A Sarajevo,

quasi nella sua patria, era stato ucciso l’erede al trono, forse per mano di uno sloveno,

come lo era del resto il capitano di cavalleria Jelacich … Di fatto si sentiva anch’egli

un po’ colpevole. . Da circa centocinquantanni la sua famiglia serviva onestamente e

con devozione la dinastia degli Asburgo. (218f)



Il patriota Jelacich diventa consapevole di certi antecedenti oscuri nella sua famiglia, antecedenti di cui lui dapprima a stento prende atto. Nonostante le generazioni che la famiglia ha passato al fedele servizio dell’imperatore una estraniazione tra lui ed i suoi figli mezzo cresciuti che altrimenti l’adorano si manifesta nascosta ed ancora innocente. Senza prenderlo ancora seriamente lui nota che si sono messi a leggere volantini proibiti. Parlano anche dell’indipendenza di tutti gli slavi del sud. La loro mente era rivolta interamente non più a Vienna, bensì a Belgrado. Ciò contro cui interviene con tutta durezza il capitano distrettuale von Trotta in qualità di luogotenente del suo imperatore viene riconosciuto dal capitano di cavalleria Jelacich come l’inarrestabile cammino del destino, contro cui sarebbe vano opporre resistenza:

Era intelligente, e sapeva che lui stava impotente tra i suoi avi ed i suoi successori, che

erano destinati a diventare gli avi di una stirpe del tutto nuova. Avevano il suo volto, il

colore dei suoi capelli e dei suoi occhi, ma i loro cuori battevano ad un nuovo ritmo, le

loro teste serbavano pensieri sconosciuti, le loro gole inneggiavano canti nuovi e

stranieri che lui non conosceva. E con i suoi quarantanni il capitano di cavalleria si

sentiva come un vecchio, ed i suoi figli gli sembravano dei pronipoti incomprensibili.

(219)



I loro cuori battevano ad un ritmo nuovo. In questo riconoscimento si trova la chiave della conclusione finale di Joseph Roth sul destino dell’Austria. Per quanto poi possa essere stata sublime l’idea di questa compagine di stati, questa è stata superata, ed ora irrompe un nuovo periodo con sentimenti meno delicati, con nuovi rapporti di fedeltà, con altri concetti di cultura ed ideali. Se questi siano migliori, più degni d’essere desiderati rispetto ai secoli di un vecchio stato comprendente più popoli organicamente edificato su una propria unità spirituale, su una civitas Dei, come l’aveva chiamata così bene Franz Werfel, tale domanda viene lasciata dal poeta, come anche dal suo capitano di cavalleria Jelacich in ultima analisi senza risposta.

La conoscenza della tragicità del destino austriaco, che il capitano di cavalleria Jelacich sperimenta nella separazione dai suoi figli e dai suoi mondi, come anche d’altra parte del logico storico pessimismo del conte polacco Chojnicki – sia ancora una volta puntato il dito sul fatto che in tutte queste figure determinanti del romanzo si tratta sempre di nuovo di slavi o di discendenti da slavi, con l’eventuale eccezione del medico di reggimento ebreo, dunque in ultima analisi di tipici personaggi austriaci – divide alla fine il tenente Carl Joseph von Trotta divenuto apatico e perspicace per istinto nonostante l’alcolismo ed il malessere/disagio di provincia. Quando era giovincello il cadetto non aveva dubbi. L’eredità dell’eroe di Solferino credeva ciecamente alle verità che il padre e la scuola gli avevano tramandato come tradizione eternamente valida:

Lui conosceva i nomi di tutti i membri delle casate più elevate. Li amò tutti con

sincerità,con un cuore devoto da fanciullo, prima di tutti gli altri l’imperatore, che

aveva un animo grande e buono, era sublime e giusto, infinitamente distante e pur molto

vicino, particolarmente affezionato agli ufficiali dell’esercito. Si avrebbe preferito

più di ogni altra cosa morire per lui al suono della musica militare, il più semplicemente

con la Marcia di Radetzky. (23)

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mercoledì 11 maggio 2011

Saggi (I parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Adolf D. Klarmann

L’immagine dell’Austria nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all'italiano di Gianni Casoni.

Sarebbe un presupposto sbagliato se si volesse vedere in Joseph Roth, creatore di un proprio personale mito austriaco, un’immagine dell’Austria unitaria cresciuta assieme in modo organico dove avrebbe trovato la sua espressione il dolore per il tramonto dell’impero come ingiustizia storica. Davanti ai nostri occhi si srotola piuttosto l’immagine di una monarchia che si avvicina inesorabilmente alla sua fine. Il suo destino viene descritto sull’esempio delle tre o quattro generazioni di slavi del sud fedeli all’imperatore, quelle di von Trotta, che prestano servizio all’imperatore Francesco Giuseppe I degli Asburgo, figura miticamente lontana, rispettata da tutti, ma anche compassionata con dovuta distanza, sì persino pensata con un leggero sorriso sulle labbra.

Non si può non considerare due cose: Senza partecipare all’azione nel senso più stretto la personalità dell’imperatore fluttua su tutta la trama epica. Come un deus ex machina divenuto mito ancora in vita – nessuno può ricordarsi di un periodo senza l’imperatore! – questi interviene nei destini dei von Trotta in modo protettivo. Ma d’altra parte l’immagine dell’Austria di Joseph Roth che qui si rivela ai nostri occhi ha con Vienna, capitale dell’impero e residenza imperiale, solo poco a che fare, e quel poco solo in modo marginale; ciò si rispecchia nelle esistenze dei funzionari, ufficiali e anonimi soldati sbattuti nelle province dell’ampio impero apostolico nonché nel particolare carattere ctonico del paese in cui il rappresentante del grande apparato austriaco vive ben tollerato, forse ammirato e persino invidiato, ma in nessun caso inglobato nella sua vita di provincia. La radicata insuperabile estranietà trova la sua realtà simbolica nella caserma imperiale che interrompe una vecchissima strada di campagna situata nel bel mezzo della provincia slava:

La caserma si trovava nel nord della città. Chiudeva l’ampia e ben curata strada

di campagna che dietro l’edificio in mattoncini rossi dava inizio ad una nuova vita

e si addentrava nell’immenso paese blu. Sembrava come se la caserma fosse stata

posta là nella provincia slava dall’esercito imperiale e reale come un segno della

potenza asburgica. Alla stessa vecchissima strada provinciale, così larga e spaziosa

per l’esodo di stirpi slave durato secoli, sbarrava il passo. La strada provinciale

aveva dovuto evitarla. Questa faceva un arco intorno alla caserma. Se ci si trovava

all’estremo bordo settentrionale della città, alla fine della strada, là dove le case

diventavano sempre più piccole divenendo alla fine poco più che casupole di paese,

allora si poteva vedere nelle giornate con buona visibilità l’ampio portone a volta

color giallo nero della caserma in lontananza che veniva tenuto di fronte alla città

come una potente insegna asburgica, una minaccia, una protezione, ed ambedue

allo stesso tempo.(I, 54 f. Tutte le citazioni seguenti si riferiscono al volume I.)



Il simbolismo dell’ultima inutilità di una compenetrazione oppure anche solo adeguazione appare chiaro. La doppia funzione della caserma come simbolo di potere viene riassunta nelle espressioni “minaccia” e “protezione”. Nel corso del romanzo viene alla luce sempre più chiaramente questa doppia natura del rapporto. Roth tenta di mostrare il raggio riflesso dell’idea austriaca dello stato dei popoli nei paesi più lontani da Vienna nei quali si muovono le forze centrifughe di questa, idea che d’altra parte fa frammentare l’unificato corpo statale sovranazionale in piccole nazioni indipendenti con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ed a partire dalla morte dell’imperatore Francesco Giuseppe I; nazioni che da parte loro non raggiungeranno di contro da nessuna parte lo stato di una nazione vera e propria poiché hanno ricevuto tutte come microcosmi l’eredità di uno stato formato da più popoli senza essere divenuti consapevoli della più profonda missione dello stato sovrapopolare austriaco consistente in una tolleranza nei riguardi delle minoranze.

Quindi non si sviluppa, come lascia pensare il titolo LA MARCIA DI RADETZKY, la nostalgica immagine ideale di un mondo destinato inesorabilmente alla fine, invece Roth mette qui in evidenza già tratti che accanto al decorso epico di uno scorrere di avvenimenti storici puntano lo sguardo anche sull’atavismo anacronistico della monarchia e con ciò rendono a priori la fine di questo mondo non affabile. Il conte polacco grande austriaco Chojnicki articola questa conoscenza della fine: “Nel castello di Francesco Giuseppe si accendono spesso ancora delle candele. Capite? La nitroglicerina e l’elettricità ci distruggeranno! Non passerà ancora molto tempo, non molto ancora!” (151)

Già lo stato d’insubordinazione dell’eroe di Solferino che salva la vita del giovincello imperatore, l’antenato del barone von Trotta, - frutta al giovane ufficiale l’Ordine istituito da Maria Teresa per le gesta eroiche, caparbie e di non ubbidienza (inimmaginabile in Prussia!) e il rango nobiliare – è un’allusione di sottofondo alla decisione personale in un sistema inpersonale.

D’importanza fondamentale per il contenuto del libro è il fatto che l’eroe di Solferino è il figlio di un soldato semplice slovacco ed il nipote di un contadino proveniente dal confine balcano. Lui ed ancor più suo figlio, il capitano di distretto, vogliono in modo consapevole – salendo ad un più alto livello austriaco – non riconoscere in sé i sentimenti di appartenenza alla patria di tipo provinciale. Questi si aprono un varco lentamente in un impulso di sangue a stento ammesso e in un’estraniazione dalla realtà geograficamente condizionata e di temperamento moderato, in un’unione istintivamente anelata con gli ucrainici dello stesso ceppo, nell’ultimo membro dei Trotta che nei fumi del suo alcol con occhi torbidi ha sentore della fine che si avvicina. Questo è anche ciò che spinge Carl Joseph ad anelare coi suoi superiori un trasferimento nella patria dei suoi antenati, un desiderio che tuttavia non contraddice solo il principio erariale del regolamento austriaco – lasciare gli impiegati statali nella loro patria – ma che viene anche disapprovato a pieno dal padre, il fedele capitano di distretto:

Lui stesso, il capitano distrettuale, non aveva mai provato il desiderio di vedere la patria dei suoi antenati. Lui era un austriaco, servitore e funzionario degli Asburgo, e la sua patria era la residenza imperiale a Vienna. Se lui avesse avuto idee politiche per una utile trasformazione del grande e variegato impero, allora gli sarebbe piaciuto vedere in tutti i paesi della corona solo grandi e colorati atri della residenza imperiale, e in tutti i popoli della monarchia i servitori degli Asburgo. Lui era un capitano distrettuale. Nel suo distretto rappresentava la maestà apostolica. Portava il colletto dorato, il cappello all’alizarina e la spada. Non desiderava affatto condurre l’aratro sulla benedetta terra slovena. Nella lettera decisiva a suo figlio c’era la frase: “Il destino ha fatto della nostra stirpe di contadini di confine dei veri e propri austriaci. Vogliamo rimanere tali.” (116)



A lui, il padre, è dunque del tutto estraneo il pensiero di appartenere ad un ceppo proprio, sì addirittura mal visto. Vede solo disubbidienza cieca nei nazionalismi che si fanno sempre più sentire, una prepotenza impertinente di una gioventù senza Dio contro il sacro concetto d’imperatore che si muove nei capisaldi di un mondo nel quale l’imperatore è pilastro principale accanto al papa, ancorato all’ubbidiente credo nel Signore. Con una nota di tragica ironia il conte Chojnicki, che è consapevole con deplorazione dell’anacronismo austriaco, constata:

La nuova religione è il nazionalismo. I popoli non vanno più in chiesa. Visitano i

clubs nazionali. La monarchia, la nostra monarchia, è fondata sulla devozione: sul

credo che Dio ha scelto gli Asburgo per regnare sui molti tal dei tali popoli cristiani.

Il nostro imperatore è un fratello secolare del papa, è la Sua Maestà Apostolica impe- riale ,nessun altro è come lui: apostolico, nessun’altra maestà d’Europa dipende così

tanto dalla grazia di Dio e dalla fede dei popoli nella grazia divina. L’imperatore

tedesco regna, se Dio l’abbandona, ancora; eventualmente per grazia della nazione.

L’imperatore d’Austria e d’Ungheria non può venire abbandonato da Dio. Ma ora

Dio l’ha abbandonato! (150)



Queste sono tuttavia le riflessioni di un ironico pragmatico, del nobile cavaliere polacco che in tutta fedeltà guarda verso la fine del suo proprio mondo senza illusioni, in piena consapevolezza della sua impotenza di combattere contro.

Del tutto diverso è il capitano distrettuale. All’ombra del quadro del suo grande padre, l’illustre eroe di Solferino, un Don Quixote redivivus, questi combatte apertamente ed in segreto con tutti i mezzi a sua disposizione nella burocrazia contro l’epidemia del nazionalismo che si sta diffondendo a mo’ di cancro, un processo di disgregazione mortale dal quale non sono neppure esclusi gli austro-tedeschi pangermanisticamente contagiosi o meglio i boemo-tedeschi:

Nel “Fremdenblatt” ieri si era potuto ancora leggere che gli studenti tedeschi a

Praga cantano La guardia sul Reno, questi inni dei Prussiani,i nemici storici dell’

Austria alleati con quest’ultima. Di chi ci si poteva ancora fidare? (132f)

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martedì 10 maggio 2011

L'evoluzione meteo degli ultimi 35 anni nelle nostre regioni (I parte)

Sicuramente ognuno di voi avrà sentito già mille volte parlare del cosiddetto “effetto serra” e di tutte quelle conseguenze che ciò comporta. Ebbene bisogna senza dubbio constatare che negli ultimi anni abbiamo dovuto assistere ad un’evoluzione meteo quanto mai anomala. Innanzitutto è da segnalare una diminuzione delle precipitazioni annue e della loro diversa concentrazione ovvero distribuzione nei vari periodi dell’anno. Altra constatazione è il complessivo aumento delle temperature la cui causa o per meglio dire la cui principale causa è ormai nota a noi tutti.

Per quanto concerne il primo aspetto di cui brevemente accennato sopra, bisogna prima di tutto sottolineare un fatto, ovvero che ad una progressiva diminuzione delle precipitazioni si è affiancato un altro rilevante fenomeno. Si tratta del fatto che le precipitazioni si presentano in genere, specialmente nel semestre estivo, più intense e di minore durata. Ciò aggrava ulteriormente la situazione idrica in molte aree, specialmente in estate, poiché tali rare ed intense precipitazioni non apportano alcun contributo idrico di una certa rilevanza e possono invece causare danni anche ingenti alle culture e nei centri abitati stessi. A questo proposito è da segnalare uno stato di generale preoccupazione da parte delle assicurazioni che vedono di anno in anno aggravarsi l’entità di danni provocati da agenti atmosferici, per cui si finisce con un continuo rialzare degli importi dovuti alla copertura di danni provocati da eventi meteo di grande portata.

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domenica 8 maggio 2011

Panoramica sulla situazione meteo nelle nostre regioni

Panoramica sulla situazione meteo nelle nostre regioni

Dopo un paio di giornate davvero all’insegna della primavera inoltrata, si assiste già da oggi ad un brusco e quanto mai repentino abbassamento delle temperature dovuto all’afflusso di correnti fredde provenienti dai Balcani. Tale situazione dovrebbe persistere per almeno i prossimi due o tre giorni. Il successivo cambiamento meteo è atteso già nella seconda metà della settimana quando il sole lascerà posto a nubi e piogge diffuse. Sembra dunque che le elezioni amministrative si svolgeranno sotto l’acqua.

Dovendo fare una prima analisi dell’andamento climatico di quest’anno mi pare doveroso sottolineare l’estrema lunghezza di questo inverno (ci eravamo ormai abituati ad inverni sempre più brevi e a primavere quanto mai precoci) , freddo ed umido. E’ da ricordare a questo proposito la nevicata record cui è stata sottoposta la città di Arezzo ad una settimana di distanza da Natale (17 Dicembre 2010). In questa occasione si è assistito ad una copiosa nevicata che si è protratta per ben 9 ore di seguito con il raggiungimento di ben 30 cm. di manto nevoso.

Per quanto riguarda l’estate orami alle porte, gli esperti non azzardano ancora a fare delle previsioni. Dovremmo quindi attendere ancora un po’ prima di avere delle informazioni per lo meno generiche ed approssimative a riguardo.

Auguro a tutti i lettori un buon inizio di settimana.

A presto

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La Felicità : come raggiungerla e come mantenerla (I parte)

La felicità è uno stato d’essere contraddistinto da un leggero senso d’euforia. Al contrario di ciò che si sostiene non dipende esclusivamente dal raggiungimento di determinati obiettivi né tantomeno da eventi oggettivi che accadono nella nostra sfera d’interesse. Molti medici sostengono che tale stato d’animo è la risultante di una sorta di cocktail di sostanze chimiche presenti all’interno del nostro organismo. Io sostengo che essa è piuttosto l’effetto determinato da una concatenazione di cause. Innanzituttto è da tener presente un elemento del tutto essenziale, cioè la nostra mente. Se un individuo riesce a raggiungere un determinato equilibrio “psico-fisico”, questo può costituire senza dubbio la base per il raggiungimento di tale stato d’animo. Vi siete mai chiesti come mai oggi giorno la gente risulta essere priva di tale stato d’animo? Perché molti di noi hanno perso completamente una sorta di equilibrio di fondo che costituisce la base ovvero la condizione “sine qua non” per il raggiungimento del tanto desiderato stato d’animo positivo.

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sabato 7 maggio 2011

Attacco di panico, come affrontarlo

Attacco di panico, come affrontarlo

La nostra esperta ci guida alla scoperta di quello che attualmente è un vero e proprio disturbo e, che se non adeguatamente fronteggiato, rischia di compromettere seriamente la vita di colui che ne soffre
“Immaginiamo di essere a una cena con amici, in una riunione di lavoro, rilassati su una poltrona al cinema o, ancora, in macchina bloccati nel traffico. Improvvisamente, senza nessun tipo di preavviso e senza sapere perché, si entra in uno stato di angoscia profonda e malessere generale, il cuore incomincia a battere all'impazzata, il respiro si fa affannoso, le mani sono ghiacciate, si suda, si ha la sensazione di stare per svenire o addirittura di morire”.
Questo stato intenso e terribile dura da qualche minuto a un’ora circa, ma per chi lo vive sembra un’eternità. La prima volta che sorge un episodio acuto di ansia, detto più propriamente “panico”, si corre al pronto soccorso dell'ospedale di zona, si fanno esami e controesami, ma tutti i risultati sono negativi. Il panico rientra nei disturbi dell'ansia, in pratica rappresenta un suo attacco più acuto, un’esagerazione della normale reazione del corpo alla paura. Ma la persona che ne viene colpita, soprattutto le prime volte, non sa che a provocare tutto questo malessere è la paura incontrollabile. La reazione normale in questi soggetti è quella di cercarne la ragione in fatti concreti, raccontandosi che hanno mangiato troppo, o male, che sono molto stanchi, nervosi oppure che hanno molti problemi. Scatta, così, la cosiddetta ansia anticipatoria, nella quale la persona vive in attesa che arrivi un nuovo attacco acuto e, nella speranza di allontanare questo rischio, evita tutte le situazioni in cui ne ha sofferto: si finisce inevitabilmente, in questo modo, a non prendere più l'autobus, non guidare la macchina, non andare al cinema, non fare un viaggio, non recarsi al lavoro, eccetera, compromettendo in modo molto serio la propria vita.
Le cause dell'attacco di panico sono tantissime e variano da soggetto a soggetto, così come l'intensità del disturbo. La comprensione delle cause è ancora tutt’oggi difficile da definire. Numerose ricerche però hanno evidenziato una predisposizione biologica (s’ipotizza una disfunzione di due neurotrasmettitori: la noradrenalina e la serotonina in aree cerebrali specifiche, ndr), che, se unita ed eventi particolari della vita come perdite o separazioni, può innescare un processo diciamo “psico-biologico”, che porta all'attacco di panico. Se dovesse verificarsi un solo episodio, direi di non allarmarsi e prenderla solo come una brutta esperienza, ma se dovesse ripetersi è importante chiedere aiuto subito, rivolgendosi a uno specialista che in questo caso è uno psicoterapeuta.

Chiara Cimmino

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L'umiltà del male

L'umiltà del male" di Franco Cassano

Un saggio che analizza come la distanza crescente tra le elite e le masse possa pregiudicare la lotta contro quel male che sa farsi umile per sedurre la maggioranza degli uomini

Senza un'elite competente e coraggiosa la politica muore. Ma questa spinta morale deve sapersi confrontare con la maggioranza degli uomini, misurarsi con la loro imperfezione, deve diventare politica.
Come dimostra la figura del Grande Inquisitore, il male è un lucido conoscitore degli uomini e fonda il suo regno sulla capacità di coltivarne le debolezze. E sa adattarsi ai tempi, perché ha imparato a cambiare spalla alle sue armi: una volta esaltava la sottomissione, oggi offre con successo e su tutti i canali dosi crescenti di volgarità ed esibizionismo. Se vogliono far crollare questo potere, i migliori devono smettere di specchiarsi nella loro perfezione. Da sempre i Grandi inquisitori usano questo sentimento di superiorità per isolarli da tutti gli altri, per ridicolizzarne l'esempio e renderli innocui. Chi spera negli uomini deve inoltrarsi nella zona grigia dove abita la grande maggioranza di essi, e combattere lì, in questo territorio incerto, le strategie del male.

Franco Cassano è professore di Sociologia e di Sociologia della conoscenza alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari. Tra i suoi libri più recenti: Modernizzare stanca: perdere tempo, guadagnare tempo (2001), Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro (2003), Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni (2004) e Il pensiero meridiano (2005).

Stefano Crupi

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venerdì 6 maggio 2011

Dispense (IV parte)

Se è vero, come verosimilmente appare, che Jacques non ha avuto in vita sua alcun trattamento di prima classe, allora sembrano piuttosto contraddirsi anche le parole servo e amico. Un’altra variante di questo rapporto da Roth così tanto magnificato sono il tenente ed il suo aiutante Ornufrij; questo impiegato contadino si attacca in modo commovente alle calcagna del suo padrone, e quando quest’ultimo rimane a corto di soldi questi intraprende un viaggio di un giorno per andare a prendere i suoi risparmi sepolti sottoterra.

Qui non si deve mettere in dubbio il contenuto veritiero degli avvenimenti narrati – ci sono persino nella realtà ancora esempi di questo rapporto antico, una dedizione piena e spesso anche entusiasta di uno per l’altro, una identificazione dal basso verso l’alto ed una rinuncia alla propria personalità. La miriade di simpatizzanti che Hitler potè mobilizzare per se prendeva spunto dalle latenti condizioni che corrispondono al rapporto qui idealizzato. La dedizione dell’Io ad una entità più grande e lontana libera dalla pressione esercitata dalla responsabilità personale permettendogli allo stesso tempo di prender parte nella sua propria piccolezza al potere, di sentirsi lui stesso potente. Ma qui disturba il fatto che questo rapporto venga chiamato da Roth “amicizia” e “fratellanza” (l’imperatore e Trotta: erano due fratelli ). Poiché questa “fratellanza” è solo un mezzo per velare l’oggettiva disumanità dei rapporti all’interno della società – l’inuguaglianza sale ad un ordine “naturale” pseudofamiliare – Con ciò anche la struttura gerarchica viene motivata “come in una famiglia”. In questo modo il padrone della fabbrica è anche il “padre” e “fratello” e “amico” dei suoi impiegati. Così la realtà viene violentata.

Reich-Ranicki crede tuttavia a Roth nella sua “fraternità”: In fondo sono persone brave e a modo che fanno il loro lavoro come si deve: l’impiegato d’ufficio … , il tranquillo reporter, … il funzionario, … il diplomatico austriaco … Poco importa se imperatore o stalliere – sono tutti a mal partito. Ciò vuol dire, davanti al destino sono tutti uguali. Questo tipo di uguaglianza e fraternità risale ancor prima della egalitè e della fraternitè, e delle aspirazioni democratiche borghesi non rimane nient’altro che l’individuo borghese, o piuttosto il suo fantasma. L’imperatore ed il suo suddito fedele, Trotta ed il suo servo, ecc. – la combinazione è poi scambiabile con “Il Fuehrer ed i suoi fans”. Ma questo lo sono poi anche di nuovo Robinson con Venerdì sulla sua isola deserta, solo che qui non si guarda più in modo così ottimista in avanti, ma ci si ritira in se ed alle proprie origini di sangue e di terra. Non ci sono più persone, e c’è solo ancora il mutato Robinson, l’imperatore, l’individuo, come focus d’identificazione.

L’uguaglianza formale dei membri della società, un aspetto che accompagna l’economia del libero mercato, fu abolita dal fascismo. Nella letteratura ci si arrangia rievocando l’inuguaglianza del periodo feudale. Al vertice della gerarchia continua a stare il libero individuo che conserva il suo isolamento immergendosi in un ordine pseudo-arcaico.

Nel tentativo di sganciarsi dal brutto presente Roth ricade nell’aggressione: al posti dei rapporti concretizzati pone una specie di dipendenza “familiare”; al posto della società industriale di un capitalismo altamente sviluppato una forma d’economia contadina con semplice scambio di merci; al posto della disumanità della grande città la vita di paese; al posto del lavoro svuotato di senso delle fabbriche e delle caserme- ufficio l’agricoltura. Dalla già citata lettera: Tutto ciò che fa capo al pubblico non vale nulla … Bisogna vivere come un contadino, e se non si è immediatamente produttivi, o non lo si può essere, allora bisogna amare doppiamente i suoi e gli amici.

Così nel 1931. Amare doppiamente – è un po’ poco in un tempo in cui si stava formando il fascismo. Il “vivere semplice” ed i rapporti “semplici”, “umani” appaiono come medicina se la società è divenuta troppo complessa e disumana. La sfera privata diventa soggettivamente l’unico ambito un’attività libera ed autodeterminata è ancora possibile. L’individuo isolato apprende la vita storicamente di gruppo come evento naturale al quale non si deve opporre. Eludendo nell’ambito della finzione apparentemente privata ed indeterminata viene trascinata con sé tutta la condizionatezza – e porta qui a nuove fioriture. Così nasce poi qualcosa come la “Marcia di Radetzsky”, un romanzo “apolitico”, consumabile come un concerto festival di fine anno, la vecchia Austria …

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