giovedì 14 aprile 2011

La Marcia di Radetzky (V parte)

Don Chisciotte di Sipolje



L’Austria è all’inizio e alla fine della vita di Roth, ma è anche presente durante la sua vita come un’ossessione psichica continua. Nell’opera La Marcia di Radetzky l’argomento centrale di Roth ha trovato la sua espressione più forte e l’impronta artistica più convincente.
È ovvia l’idea che Roth aveva visto già a Brody e Lemberg il potere asburgo, come lo descrive in questo romanzo da prospettive diverse, normalmente da quella del cadetto Trotta, poi divenuto sottotenente: la cavalcata mattutina dei dragoni attraverso la città; un battaglione di cacciatori grigio; la musica in piazza con le fantasie da ragazzi di vita e morte di eroi; in un’ufficio o in una scuola l’immagine dell’imperatore; lo splendore di una processione o una parata. All’epoca la fantasia di tutti i bambini ruotava attorno a soldati e divise e soprattutto quella dei bambini delicati, come lo era stato Roth. Ma i bambini assumono anche i giudizi degli adulti. Gli ufficiali camminavano come adoratori incomprensibili di una lontana deità crudele, e contemporaneamente come suoi animali destinati al sacrificio vestiti a colori e ornati splendidamente. Seguì loro con lo sguardo e scosse la testa. Venivano addirittura compatiti. Hanno tanti vantaggi, diceva la gente. Possono girare con sciabole e piacere alle donne, e l’imperatore in persona si occupa di loro, come se fossero i suoi figli. Ma uno, due, tre, in un attimo uno arreca un’offesa ad un’altro e questa deve essere lavata via col sangue!
Il tempo prima del 1914, se visto sotto tali aspetti dell’esercito e della rappresentazione statale, sembra essere da attribuire piuttosto a un’epoca arcaica che moderna. Il suo fascino marziale, che evidentemente faceva così tanto effetto, ci è estraneo. Il potere si basa su forze diverse rispetto a una volta. Non è più da apprendere con i sensi, anche per l’ingenuità. Probabilmente Roth è stato l’ultimo narratore che poteva permettersi di scegliere come titolo per un romanzo su uno stato una musica militare. (Il giudizio scioccante in un primo momento di Musil sulla Marcia di Radetzky: “un romanzo di caserma scritto in modo molto carino” non è poi così sconcertante se si parte dal titolo.)
Due decenni dopo la caduta di “Kakania”, nei suoi ultimi anni di vita Roth lavora in esilio, che trascorre soprattutto nella capitale del mondo , a Parigi, e scrive la Cripta dei Cappuccini e La milleduesima Notte, il saggio su Grillparzer e numerosi articoli di tendenza asburgico-legittimista. Con parecchie enfasi e non privo di sentimentalità ha formulato il significato dell’Austria e del passato per lui all’epoca. Nell’articolo Nella Cripta dei Cappuccini (1935) si rivolge direttamente al monarca deceduto: Ma te, mio imperatore Francesco Giuseppe, sto cercando, perché tu sei la mia infanzia e la mia gioventù. Nel romanzo La Cripta dei Cappuccini (1938) la dichiarazione è verosimilmente ancora più decisa: L’Austria non è uno stato, non è una patria, non è una nazione. È una religione. L’Austria spirituale, in cui credeva, gli è servita per un po’ di tempo da sostegno, ma lo perse nel Marzo del 1938. Dopodiché la rovina di Roth si accellerò.
Che cosa significa in realtà il suo impegno sotto l’aspetto storico?
L’Austria di quest’autore è il regno dei paesi slavi della corona – non i territori tedesco-austriaci dell’odierna repubblica alpina e neanche l’Ungheria. Per gli abitanti di questi territori Roth per motivi politici covava piuttosto delle antipatie. La loro mentalità era estranea alla sua. Con i nazionalisti tedeschi aveva già fatto le sue esperienze negative all’università di Vienna, dove dilagava l’antisemitismo. Non c’era strada più lunga dal mondo dei pensieri di Roth a quella dei pangermanisti attorno a Georg von Schönerer – dal quale era influenzato Hitler -, che guardavano desiderosi attraverso il confine vicino, pensavano in modo antiasburgico e anticlericale e sognavano un Reich governato in modo protestante. Sullo stato troncato, condannato all’autonomia nel trattato di Saint-Germain-en-Laye (“L’Autriche, c’est qui reste”, disse Clemenceau), Roth si pronunciò ogni tanto in modo sprezzante, come in una lettera del 1934 a Ernst Křenek: Sicuramente so che l’imperatore dell’Austria, se rimanesse solo un’imperatore dei cretini alpini, non sarebbe l’imperatore che indendiamo noi. La Cripta dei Cappuccini mostra l’ira particolare di Roth sui tedeschi dei Sudeti. Cretini alpini e Boemia dei Sudeti, questi Nibelunghi cretini hanno offeso e disonorato le nostre nazionalità così a lungo […] finché cominciarono ad odiare e tradire la monarchia. Anche gli ungheresi per lo più nazionalisti erano per Roth distruttori del regno. Per lui si tratta dell’Austria come idea sovranazionale. La sua comprensione dello stato in realtà escludeva i confini. Amava un regno dove come nei tempi di Carlo V il sole non tramontava mai. La sua simpatia invece apparteneva alla cinta delle provincie per lo più slave, che appartenevano alla metà cisleithania del regno, dalla Boemia, Moravia, Galizia, Bucovina fino alla Slovenia. (La Croazia, che apparteneva per metà all’Ungheria , non rimane a caso non menzionata, come la Slovacchia: Budapest opprimeva l’elemento slavo e cercò di magiarizzarlo.) Roth è il poeta dell’austroslavismo, un’erede spirituale dello storico ceco Palacký, che nel 1848 aveva formulato: “È una cosa sicura, che, se lo stato austriaco non esistesse già da tanto tempo, avremmo nell’interesse dell’Europa e addirittura dell’intero mondo il dovere di impegnarci il più presto possibile per la sua fondazione.” Quanto più vicino una tale riflessione doveva essere a uno scrittore ebreo di Galizia che allo storico di una piccola nazione slava. Franz Ferdinand Trotta – i nomi dell’io narrante della Cripta dei Cappuccini sono stati scelti simbolicamente – pronuncia ciò che anche Roth considera una possibilità persa della storia: Mio padre sognava un regno slavo sotto il dominio degli Asburgo. Sognava una monarchia degli austriaci, ungheresi e slavi. Dal successore al trono arciducale Franz Ferdinand se l’era aspettato, che avrebbe imposto il trialismo e così salvato il regno in crisi. Certamente la conseguenza era il rifiuto del successore al trono da parte degli ungheresi, che Roth ha trasformato nella Marcia di Radetzky in una scena macabra: la festa d’estate del sontuoso reggimento dei dragoni termina dopo il diventare pubblico della notizia di sventura da Sarajevo in sfoghi di odio da parte degli ufficiali ubriachi.
Come narratore, Roth parte da problemi che si potevano sviluppare solo nel crogiolo culturale e sociale dell’”Europa provvisoria” di un tempo. In questo continua ciò che Marie von Ebner-Eschenbach, Ferdinand von Saar, Jakob Julius David, Karl Emil Franzos e Leopold von Sacher-Masoch avevano iniziato. L’opera di questi realisti austriaci è formata da una coscienza scettica. La loro simpatia appartiene alle persone che stanno dal punto di vista storico dalla parte dei perdenti. Perciò appare nella loro poesia una nota d’animo diversa rispetto alla letteratura contemporanea in Germania, che si presenta più esigente e non di rado nazionalisticamente surriscaldata. Malgrado gli stretti limiti artistici e malgrado il fatto che le cose rappresentate siano manifestazioni terminate, questi autori sono tuttora interessanti, non solo dal punto di vista letterario-storico.
Si tratta del fenomeno di poesia in lingua tedesca in un’ambiente per lo più estraneo. L’ambito dei romanzi di Roth è slavo. La vicina Russia e l’elemento ebreo orientale determinano il tratto fondamentale religioso. Dopo che le condizioni politiche e socio-culturali per il sussistere di questo fenomeno non ci sono più si potrebbe pensare di leggere Roth come si legge Keyserling o un altro autore storicamente dell’ultima ora: la letteratura come documento di un commiato.
Roth invece, non era solo cronista e poeta, ciò che lo distingue dagli altri è il suo “plus ultra”, il suo impegno per qualcosa di impossibile: doppiamente impossibile per un ritardo storico. Ha spostato l’Austria asburgica sotto le stelle, e contemporaneamente la voleva ripristinare sulla terra – nell’Europa della dittatura proletaria, della barbaria razziale, delle lotte tra le visioni del mondo dei diversi popoli e nazioni. Mentra Hitler mandava fuori le sue SA marroni e Stalin era occupato con la liquidazione dei suoi propri ufficiali, Roth come pubblicista politico scriveva degli articoli ed orazioni per uno stato corporativo asburgico e cristiano. La disparità delle forze è inesprimibile. Roth lottò valorosamente con i suoi mezzi, ma che altro era se non un politico perplesso, alla fine un uomo distrutto, un ubriacone maldestro? Il livello di realtà, dove agivano i suoi avversari, non era più il suo. Nella discrepanza tra il modo antiquato cavalleresco-generoso del suo pensare e la meschina realtà della sua vita e del mondo Roth era un Don Chisciotte austriaco.
I dettagli dell’attività politica di Roth in esilio e la forma dei suoi contatti con membri della vecchia casa regnante ed il loro ambiente sono significativi. (Assicurò all’ex-imperatrice cattolica osservante Zita, che lui sarebbe stato felice solo nel monastero; chiese a Otto d’Asburgo in occasione di un colloquio: “Maestà, ma è Lei il legittimista oppure io?” “Accettò” nell’ultimo colloquio con un atteggiamento sforzatamente soldatesco l’ordine dato con buone intenzioni da Otto d’Asburgo di smettere di bere. Cercò di conquistare il duca Degenfeld con lo stratagemma di mandare Otto a Vienna in una bara, per proclamarlo lì imperatore ecc. ) Per se stesso traeva incoraggiamento da questi contatti; lo confermavano nel suo mondo desiderato. Solo per ultimi si ruppero.
Roth come emigrante accanto ai monarchici austriaci – aveva dimenticato che lui stesso aveva scritto nel 1926 sugli emigranti russi? L’Europa si era abituata da un bel po’ a vedere in Lenin un rappresentante russo. Gli emigranti stavano ancora dalla parte di Nicola II di Russia. Si aggrappavano con una fedeltà commovente al passato, ma violavano la storia. E loro stessi riducevano la loro tragicità. […] Stavamo davanti ai resti che non capivano la loro propria catastrofe, sapevamo più di loro di quello che ci potevano raccontare, e , a braccetto con il tempo, passavamo sopra ai perduti, crudeli ma lo stesso tristi.

Roth considerava l’austriaco, come lo voleva comprendere alla fine, avere affinità spirituale con lo spagnolo: La Spagna confina storicamente con l’Austria, è scritto programmaticamente nel saggio su Grillparzer. La controriforma è diventata una raisonnable lontana e nobiliva i parenti tardivi dell’inquisizione. Gli asburgo sono spagnoli che hanno assunto un carattere austriaco e mantenuto il cerimoniale spagnolo. Questo cerimoniale, rigoroso e allo stesso tempo assimilante, resiste in Austria alla sconsideratezza crescente. Sulla bandiera il nero sta al di sopra del giallo. Il nero protegge il giallo. L’aquila bicipite, dorata, sopra le due metà, protegge l’unità.
Capriccioso-attento (Chi non pensa a castagnette quando sente i tamburi iniziali della Marcia di Radetzky, non ha un’orecchio musicale) scopriva l’elemento spagnolo nell’esercito dell’Austria di Franz Joseph: Si muore in modo nobile. Le truppe vittoriose hanno tratti dello slancio classico dei cavalli bianchi lipizzani, degli animali più cavallereschi dell’Europa, che sono dotati della nobiltà simbolica degli animali araldici. Le truppe austriache vanno in battaglia con casacche/uniformi bianche come la neve. Le loro vittorie sono successi classici di una tradizione superata. Le loro sconfitte hanno un significato simbolico. È l’ultima ombra della vecchia cavalleria, che sottosta alla tecnica plebea: l’attacco scoperto delle linee scoperte e chiuse […] Così è la caduta del feudale: muore nella vecchia armatura, in battaglia contro il parvenu, che presto si metterà la falsa corona […]
Il parvenu, è il re di Prussia, la tecnica plebea, sono il fucile ad ago ed il blu prussiano (invisibile nella nebbia). Roth tratta il complesso “Prussia” con avversione e freddezza, alla fine con odio, d’altronde non molto diverso da come tratta il protestantesimo. L’accorciamento, tentato ripetutamente dopo il 1945, delle linee di destino tedesche trova già nel 1937 in Roth il suo fautore, quando interpreta la famosa frase di Grillparzer: “Dall’umanità attraverso la nazionalità fino alla bestialità” come: Da Erasmo attraverso Lutero, Federico, Napoleone, Bismarck fino alle odierne dittature europee.
Così parla uno sconfitto, che ripaga la vergognosa vittoria del torto con ingiustizia. Vuole opporsi ai falsi giudizi e rappresentare la propria causa, come si merita di essere compresa. Ciò che Roth dice di Grillparzer, vale anche per lui: Era come se sentisse, per il suo dovere di essere un rappresentante classico della monarchia, soprattutto la necessità di confutare l’idea da cartolina illustrata, che le altre tribù tedesche si erano formate dall’”Austriaco” (ancora p r i m a dell’invenzione della cartolina illustrata). Contemporaneamente Roth stesso giudica l’Austria, rimprovera i poteri che la indebolivano: soprattutto il liberalismo, che voleva trasformare le virtù dell’austriaco in imitazioni, la leggerezza in avventatezza. Già quando parla del periodo di Grillparzer, il giudizio di Roth non è conciliante, ma severo: Del “novello” che in realtà è aspro, le poesie e le canzoni ne fanno una limonata dolce. Un orecchio sensibile e conservativo aveva già sentito la vittoria mondiale del valzer e dei suoi figli, le operette di Lehár. La “grazia”, che prese il suo nome con lo stesso diritto dall’antichità greca e dalla Gratia cattolica, si trasformava in un articolo d’esportazione: “L’Allegria Austriaca”, l’etichetta delle severe figlie spagnole in una “gentilezza” superficiale. D’altra parte Roth ritrae Grillparzer come aspro giudice del suo tempo nel suo timore del mondo, nella sua umiltà pronta a rimproverare, nella sua modestia, che in realtà era un atteggiamento superbo , nella sua ipersensibilità, che rappresenta il più vendicativo di tutti i difetti umani . Con tutto ciò che dice su Grillparzer – l’unico classico tedesco proveniente dallo spagnolo, da Calderon -, parla di se stesso e di ciò che vorrebbe essere: il Romano, l’uomo mediterraneo.
E con tutto esagera – in realtà questo comportamento non è molto austriaco. Deve – e questo vale per tutto il suo occuparsi di quest’argomento – cercare di influenzare il sentimento in modo esagerato, perché la realtà piuttosto gli sfugge. Sarebbe da confrontare il verso che Grillparzer nel 1848 rivolse a Radetzky – citato da Roth -: “Nel tuo campo c’è l’Austria” con il lontano eco di questo grido di battaglia nel suo romanzo: A casa, nel capoluogo del distretto moravio W., forse c’era ancora l’Austria. Tutte le domeniche l’orchestra del signor Nechwal suonava la marcia di Radetzky. Una volta la settimana, di domenica, c’era l’Austria.
L’opposizione radicale di Roth al nazionalismo è giustificata, ma la sua lode della sovrannazionalità dell’Austria un po’ troppo forte. Nestroy la fece più breve. (“La nazione migliore è la rassegnazione.”)
Tuttavia c’è da considerare che Roth comprende tutto ciò che Nestroy dice dopo il 1933 sul suo argomento, come contributo ad una lotta attuale politica. Reagisce in modo aggressivo se altri leggittimisti mancano la problematica attuale. Quando nell’ Aprile del 1939 in occasione di un’adunanza della “Lega per l’Austria spirituale” – Roth è uno dei cofondatori e vicepresidente di quest’organizzazione – lo storico Walter Tritsch spiega a proposito dell’argomento “Austria” l’origine della natura austriaca con l’infiltrazione di tradizioni di corte ed amministrative burgunde, Roth batte col pugno sul tavolo, indica la guerra imminente e chiede consultazioni sulla formazione di una legione austriaca in Francia. Sarebbe questa la cosa importante, non di ciance burgunde ed altro. Di tanto in tanto Roth ha menzionato che vorrebbe tornare nell’Austria liberata in testa a tali truppe.
Nel primo anno del suo esilio si è coscientemente deciso: Per quanto riguarda me personalmente: conseguentemente ai miei istinti e alla mia convinzione mi vedo costretto a diventare un monarchico assoluto. […] Voglio indietro la monarchia e lo voglio dire. (A Stefan Zweig, 28 Giugno 1933) L’alcool degli anni successivi lo rese acritico di tanto in tanto? Klaus Mann induce a fare una tale supposizione nella sua autobiografia “Il punto di svolta”: “[…] Sconcertava i signori della stampa con le sue teorie politiche bizzarre, che difendeva con grande eloquenza ed insistenza . La salvezza dell’Europa poteva venire – secondo Roth – solo dalla casa di Asburgo. Se la maestà unta sedesse di nuovo nella Hofburg di Vienna, tutto si sistemerebbe.: il dominio dell’’’anticristo’ sarebbe passato. Mentre il poeta spiegava queste cose, consumava quantità sorprendenti di superalcolici […] Con uno sguardo vitreo, ma del resto con un portamento dignitosamente composto, teneva dei circoli nei caffè di Parigi, Vienna, Amsterdam ed altre metropoli. […] Era circondato da colleghi ed ammmiratori, mentre parlava con un sinistro, forse disperatamente scherzoso entusiasmo del pensiero imperiale e buttava giù un bicchierino scuro dopo l’altro. Le miscele, con le quali si ristorava, sembravano medicine, invece erano terribilmente poco tollerabili: Il poeta Roth si stava lentamente suicidando, si ammazzava a forza di bere […]” (La questione se Roth in esilio facesse sempre sul serio con le sue concezioni politiche è stata posta ripetutamente. Una risposta dipende anche da come lo si considera. Blanche Gidon lo chiamò ancora poco prima della sua morte tra se e se un “grande bambino” ; anche Friderike Zweig lo vedeva così.
Ciononostante significherebbe fraintendere Roth anche come scrittore di romanzi, se si trascurasse la sua autocomprensione politica e se si vedesse in lui solo il poeta. La Marcia di Radetzky non è stata scritta come poesia senza tempo o per la soddisfazione di desideri nostalgici. Serviva all’orientamento spirituale dell’autore e dei suoi lettori, per quanto Roth nella spaventosa situazione politica e sociale della declinante repubblica di Weimar da una parte cercasse le cause per le attuali difficoltà nel passato, dall’altra sviluppasse modelli dei valori per lui validi. Non è possibile tracciare un confine fra il romanzo e la successiva pubblicistica politica, perché tutti gli argomenti rilevanti a questo proposito vengono già toccati nel romanzo. In fondo, dice Lukács, il valore artistico dell’opera è collegato alla debolezza ideologica dell’autore. “Se Roth non avesse le sue illusioni, non sarebbe mai riuscito a guardare così profondamente dentro il mondo dei suoi impiegati ed ufficiali e a rappresentare il processo della loro decadenza morale e sociale in modo così perfetto e veritiero.”

Anche la Marcia di Radetzky ha una trama semplice: Nella battaglia di Solferino (1859) il sottotenente Trotta salva la vita al giovane imperatore. Viene promosso, onorato e nobilitato: con ciò viene estraniato dai suoi antenati contadini provenienti dal paese sloveno Sipolje, e da suo padre, che è un maresciallo della gendarmeria al confine meridionale. (Sipolje diventa il suo predicato nobiliare.) Quando scopre dopo tanti anni nel libro di lettura di suo figlio una rappresentazione pattrioticamente banalizzata della sua storia, si lamenta, e non avendo successo – solo l’imperatore gli accenna in un’udienza la sua comprensione e la sua ulteriore grazia - si congeda. Ora suo figlio viene designato impiegato e diventa capitano distrettuale in Moravia. Il suo senso del dovere ed atteggiamento spartano lo rendono – accanto all’imperatore, con il quale ha tanti tratti comuni, perché si sforza in continuazione di assimilarsi a questo modello – il vero eroe del romanzo. Il suo amore, la cui dichiarazione certamente non è mai in grado di superare le strette barriere, appartiene assolutamente al suo unico figlio, che in un primo momento presta servizio presso la cavalleria e può contare su una carriera sicura, perché la grazia dell’imperatore vigila su di lui. Il capitano distrettuale, però, è costretto ad osservare non solo il lento declino dello stato, ma anche il fallimento di questo figlio. Il giovane ufficiale si sottrae al ruolo assegnatogli, percepisce in modo inconsapevole la catastrofe imminente e non si sente all’altezza delle pretese nei suoi confronti. I suoi rapporti con le donne finiscono con conflitti e sensi di colpa. È triste come amante, come giocatore, alla fine come bevitore. All’inizio della campagna militare in Galizia del 1914 cade, quando vuole prendere dell’acqua per i suoi soldati assetati. Il capitano distrettuale, che non è in grado di superare la morte di suo figlio, muore nel 1916, quando si delinea l’esito infelice della guerra, quasi contemporaneamente all’imperatore – […] entrambi non potevano sopravvivere all’Austria.

Roth mise prima della prestampa del romanzo una nota personale: Una volontà crudele della storia ha frantumato la mia vecchia patria, la monarchia austriaco-ungherese. La amavo, questa patria, che mi permetteva di essere un patriota e nello stesso momento un cittadino del mondo, un austriaco e un tedesco tra tutti i popoli austriaci. Amavo le virtù e i pregi di questa patria, e oggi, morta e perduta, anche i suoi difetti e carenze. […]
A me e tanti altri tra i miei connazionali internazionali, che abbiamo perso una patria e con ciò un mondo, è conosciuta e familiare un’Austria tutta diversa da quella che si è manifestata durante la sua vita in operette d’esportazione e che si mantiene dopo la sua morte solo nelle sue esportazioni da quattro soldi. Ho conosciuto e amato la strana famiglia dei Trotta […], gli spartani tra gli austriaci. Nella loro ascesa, nella loro caduta penso di poter vedere la volontà di questo sinistro potere, che interpreta il destino di una violenza storica usando quello di una famiglia.
I popoli passano, i regni si disperdono. […] È il dovere dello scrittore di conservare da ciò che passa, da ciò che si disperde, le stranezze e allo stesso tempo il carattere umano.

I ricordi di Roth del periodo imperiale gli offrivano di solito materiale a sufficienza per scrivere il romanzo. Bronsen ha provato che diverse figure protagoniste sono copie di persone conosciute da Roth. Al conte Chojnicki, Roth diede la propria fisionomia e lo rese il suo portavoce. Importanti scene come quella dello sciopero degli operai di spazzole sono prese dalla realtà.
Nella ricerca finora è stato ignorato il fatto che un famoso momento culminante del romanzo, la descrizione della processione del Corpus Domini, è fino nei dettagli una copia di un romanzo molto noto in tempi precedenti, che fu pubblicato quasi contemporaneamente al romanzo di Roth: “Apis ed Este” di Bruno Brehm. Il paragone delle due descrizioni rende ancora più evidente la maestria di Roth nell’uso della lingua; la sua volontà di stile eleva la descrizione semplice e dettagliata di Brehm ad uno spettacolo pieno di fine grazia, dignità ricca di spirito e temperamento artistico:
I pantaloni celesti della fanteria splendevano. Come la serietà personificata della scienza balistica passavano davanti gli artiglieri color caffè. I fez rosso sangue sulle teste dei bosniaci azzurri bruciavano al sole come piccoli fuochi di gioia, accesi dall’islam in onore della sua maestà apostolica. Nelle carrozze nero lacca erano seduti i cavalieri del vello, ornati d’oro, e i consiglieri comunali neri dalle guance rosse. Dopo di loro sventolavano i pennacchi di crine della fanteria di guardia del corpo come maestose tempeste, che tengono a freno la loro passione. Finalmente si alzò, preparato dalla marcia del generale squillante, il canto imperiale e reale dei cherubini dell’esercito, terreni, ma comunque apostolici: “Dio mantenga, Dio protegga” sopra la folla del popolo in piedi, sopra i soldati in marcia, i cavalli trottando leggermente e le carrozze che si muovevano senza fare rumore. Fluttuava sopra le teste di tutti, un cielo di melodia, un baldacchino di suoni nero-gialli. E il cuore del sottotenente era fermo e contemporaneamente batteva fortemente – una singolarità medica. In mezzo ai suoni lenti dell’inno i gridi di evviva si alzavano come bandierine bianche in mezzo a grandi vessilli con stemmi. Il cavallo bianco lipizzano si muoveva ballonzolando, con la civetteria maestosa dei famosi cavalli lipizzani, che godevano della formazione nella scuderia imperiale-reale. [A questo punto si è verificata una perdita del testo oppure l’attenzione di Roth è diminuita; il cavallo bianco certamente non arriva da solo. In “Apis ed Este” il passo suona come segue: “Uno staffiere di corte, su un cavallo bianco lipizzano ballonzolante con il naso convesso e le narici tenere come petali di rose, aprì la parata.”] Era seguita dal calpestio degli zoccoli del mezzo squadrone di dragoni, un grazioso rombo di parata. Gli elmi nero-gialli brillavano al sole. I richiami chiari delle fanfare suonavano, voci di ammonitori allegri: Attenzione, attenzione, l’imperatore anziano si sta avvicinando! – E arrivò l’imperatore; otto cavalli bianchissimi tiravano la sua carrozza. E sui cavalli bianchi cavalcavano i lacchè in giubbe nere ricamate in oro e con parrucche bianche. Avevano l’aspetto di dei ed erano solo servi di semidei. Due guardie del corpo ungheresi con pelliccie giallo-nere di leopardo sulle spalle stavano ad ognuno dei due lati della carrozza. Ricordavano i guardiani dei muri di Gerusalemme, la città santa, il cui re era l’imperatore Francesco Giuseppe. L’imperatore indossava la giubba candida che si conosceva da tutte le immagini della monarchia, e un enorme mazzo di penne verdi di papagallo sul cappello. Le penne sventolavano leggermente al vento. L’imperatore sorrideva da tutte le parti. Sul suo vecchio viso riposava il sorriso come un piccolo sole, che aveva creato lui stesso. Dallo Stephansdom rimbombavano le campane, i saluti della chiesa romana per il Sacro Romano Imperatore. Il vecchio imperatore scese dalla carrozza con quel passo elastico, che tutti i giornali lodavano, e andò nella chiesa come un uomo semplice; a piedi andò nella chiesa, il Sacro Romano Imperatore, immerso nei suoni delle campane.
(L’imperatore austriaco non era il “Sacro Romano Imperatore”; questo errore, però, è tipico per Roth: in Austria vive il vecchio regno, nella casa Asburgo la successione degli imperatori.)

Il romanzo, il cui argomento sarebbe dovuto essere originariamente solo l’Austria antica 1890 – 1914 (a Stefan Zweig, 20 Novembre 1930) , è un’opera di fatica disperata. Roth, che aveva scritto alcuni dei suoi romanzi molto velocemente, questa volta andava avanti solo lentamente e superò la scadenza concordata con Kiepenheuer di più di un anno. La fine è improvvisata, perché ancora una volta – come accadde all’epoca con La tela del ragno – Roth stava ancora scrivendo, quando la prestampa era già in corso. Roth ha addirittura scritto – al contrario del suo solito modo di procedere – degli studi preparativi. Kiepenheuer lo sosteneva, facendo controllare i dettagli militari da Alexander Lernet-Holenia. Era anche Kiepenheuer che aveva trovato il titolo del romanzo (nella prestampa ancora La Marcia di Radetzky). Dava degli anticipi molto generosi.
Roth soffriva dei suoi problemi privati (doveva riscrivere il grandioso quarto capitolo del romanzo, perché aveva perso in stato di ubriachezza il dattiloscritto fatto da Andrea Magna Bell nel tassì) e della preoccupazione che avrebbe potuto fallire proprio con quest’opera. Così scrive nel 1932 a Friedrich Traugott Gubler: Sto lavorando in modo inumano, è crudele, ho una paura pazzesca, che il romanzo diventi INSUFFICIENTE. Ho la sensazione per ciò che è buono, ma che Dio mi dìa la forza per farlo bene, mi sembra molto incerto. Inoltre: Mi volevo rifugiare nell’anteguerra, ma è terribilmente difficile raccontarlo come lo sento. Temo, temo che sono un pasticcione. […] per me è importante come il romanzo e la mia vita che Lei non mi dimentichi […] Scrive a Félix Bertaux: Ero malato e miserabile, e sto lavorando disperatamente alla Marcia di Radetzky. L’argomento è troppo grande, sono troppo debole e non sono in grado di domarlo. Ripetutamente si è ricordato del tempo della guerra e del dopoguerra quando aveva sofferto di meno rispetto ad ora. Ad Annette Kolb (quando c’era la possibilità, che Georges Poupet, il direttore della casa editrice Plon, acquistasse i diritti francesi per il romanzo): Avrà il libro subito, se la sua casa editrice mi dà solo un minimo di anticipo; perché […] non posso neanche dire quanto sto male. Se mi avesse conosciuto 12 o 13 anni fa, basterebbe dirLe: male come 13 anni fa. Oggi ho la disgrazia dietro di me ed accanto a me, capelli grigi, un fegato malato e sono un alcolista incurabile (e questo è peggio di 13 anni fa).
Commenti di scontentezza sul romanzo ed attacchi personali di disperazione da parte di Roth (che ogni tanto non vuole più sentire), li riceve anche Stefan Zweig: So che non Le piacciono i muri di pianto. Non portano neanche fortuna. Ogni amicizia con me è d e l e t e r i a. Lei non sa quanto buio c’è in me. Mio caro amico, Lei ha la grazia della fortuna e della gioia del mondo. Ha il senso aperto per la misura, per il “giusto”, c’è qualcosa dell’arte di vivere di Goethe in Lei. Non dimentichi che sin dalla mia infanzia oscura aspiro verso la luce, torturandomi, non so se Lei, nonostante mi conosca bene, ha potuto sentire tutto. […] So quanto ho sbagliato in questo romanzo, ho chiamato in aiuto la storia stessa, un aiuto troppo vergognoso per la mia “composizione”, questo era spregevole ed i p o c r i t a. Perciò mi ci è voluto così tanto per metterlo insieme, due anni, non è una prova di salute, forza e produttività. […] Il Suo senso critico ha fallito quando ha letto la mia Marcia di Radetzky. Evidentemente nessun’altra opera ha provocato un tale fiume di depressione in Roth come questo suo più grande romanzo.
Quando l’opera fu compiuta Roth pronunciò ciò che aveva già confessato nella velatura trasparente della sua arte: Il sottotenente von Trotta, sono io. Pensava alla famosa frase del suo modello Flaubert: “Madame Bovary, c’est moi”? Comunque, l’osservazione di Roth sulla sua figura centra il fulcro. Si è identificato con Trotta molto più che con qualunque altra delle sue figure. La paura di Trotta – paura addirittura nelle braccia dell’amore – è la paura di Roth. Troppo bene conosce Roth la nostalgia/il desiderio di Trotta di una vera patria. Conosceva la sua perplessità. Le donazioni per Trotta dalla cassa privata dell’imperatore, che estinguono i debiti, il portasigarette – un regalo del padre – con l’iscrizione “In periculo securitas” sono simboli del desiderio di grazia e protezione. Ma la solitudine di Trotta è irremovibile, come lo è stata quella di Roth. Non c’è aiuto per Trotta, solo un graduale riconoscere e comprendere. Capisce lentamente, mai del tutto coscientemente. Talvolta vicino alla morte: quando cerca la propria morte, ma anche prima in occasione delle sue visite di condoglianza come quella per il suo amico caduto involontariamente in duello, il medico ebreo del regimento Demant:
“Forse era”, disse il sottotenente, e a lui stesso sembrava che parlasse da lui una saggezza estranea, una proveniente dai vecchi, grandi libri del re dalla barba argentata tra gli osti [un nonno di Demant], forse era molto intelligente e molto solo.”
Diventò pallido. Sentì gli sguardi lucidi della signora Demant. Doveva andare via. Ci fu un grande silenzio. Non c’era più niente da dire.

Traduzione dal tedesco all’italiano de La Marcia di Radetzsky di Joseph Roth da parte di Gianni Casoni ( pagg. 57 – 66 )

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