sabato 9 aprile 2011

La Marcia di Radetzky

“Un ebreo dell’est alla ricerca di una patria”


Traduzione dal tedesco all'italiano della Marcia di Radetzky di Joseph Roth da parte di Gianni Casoni (pagg. 1-8)

Solo attraverso una minuziosa osservazione della realtà si giunge alla verità, ha scritto Joseph Roth nel 1927 in occasione di un’inchiesta dedicata allo “spirito vivente di Emile Zola”. Il contesto fa ironia sui poeti seduti alla scrivania. (…) Non sono loro che hanno il diritto di chiamare il “naturalismo” zolano “piatto”. (…) Chi tra i celebri scrittori tedeschi si è occupato delle nere forze armate del reich, degli operai massacrati, della giustizia bavarese (…)? Roth era rivolto al presente e convinto della responsabilità politica dello scrittore. Egli ha compreso/ interpretato rapidamente, descritto con precisione, condannato radicalmente : la guerra e coloro che la fanno (Teisinger ; Storia naturale del generale ; Ludendorff ed il bestiame da macello) , l’accademicantato reazionario (Il corpo studenti) , la falsa/sbagliata erudizione (Dialogo sul professore tedesco) , la rivoluzione divenuta piccolo borghese (Viaggio in Russia) , l’Hitlerismo. Tuttavia questi non era sempre conseguente/coerente. Capace di una polemica tagliente come Heinrich Heine, dove fiutava stupidità e debolezza, finiva poi per comportarsi proprio lui stesso all’occasione in modo opportunista. La sua problematica privata determinata dal passato assorbì/fagocitò la passione politica. L’emozione ed il risentimento lo indussero a semplificazioni fatali. All’ultimo si dedicò al mondo dei pensieri anacronistici di monarchici settisti/settari

Già presto ha dato/conferito alla realtà della propria vita tratti da fiaba. Separare/dividere la fantasia dalla realtà gli fu sempre molto difficile, non solo quando si trattava della propria persona. Ha difeso la mentalità da cui scaturiva questo comportamento con le parole del poeta di nascita : (…) credo di aver sempre osservato che il cosiddetto uomo realistico se ne sta nel mondo in maniera inaccessibile, come una cinta muraria di cemento armato, e quello cosiddetto romantico come un giardino aperto in cui la realtà entra ed esce a piacimento (…) Servivano le invenzioni di Roth a rendere i cambiamenti che lui ha percorso più accettabili e comprensibili oppure ha vissuto lui stesso la sua vita di tanto in tanto come una fiaba, come un sogno? E quanto di queste invenzioni è probabilmente da mettere in conto al notorio bevitore/alcolizzato giunto ad una dozzina di anni prima della sua morte?

Egli ha lasciato alle sue spalle una leggenda. Chi era Roth? E’ per lo più possibile dare una rappresentazione della sua vita “in autotestimonianze” ? Il compito sembra facile e difficile allo stesso tempo. Facile, perché Roth era spinto/tendeva palesemente all’autorappresentazione, poiché lui stesso ha descritto quasi tutto ciò che lo riguardava con incomparabile ricchezza di dettagli ; difficile, perché lui nonostante ciò aveva bisogno di sempre nuove coperture. Si deve seguirlo nel mondo delle sue esperienze ed in quello delle sue maschere, se si vuole capirlo. Non sono uno scrittore vuoto. Non ho “pensieri” – solo conoscenze, scrive questi nel 1927 a Benno Reifenberg. Egli ha creato scompiglio con presunta apertura/sincerità e semplicità. Ho la necessità / il bisogno di mostrarmi al Suo cospetto completamente nudo, come sono, caro amico. Non potete giudicarmi più severamente di quanto non lo faccia già io stesso. ( A Stefan Zweig, 1934 ) Egli ha nascosto i segreti alla superficie. Da Roth partiva – e parte ancor oggi – un certo fascino che conduce al desiderio di spiegare le sue contraddizioni – possibilmente con le sue proprie parole. Da ciò le molte formule alle quali si è tentato di riportare la sua immagine : “un cantore dell’Austria” (Strelka) ; “l’Ulisse ebreo dell’est” (Magris) ; “un ebreo dell’est alla ricerca di una patria” (Reich-Ranicki) ; “Giobbe” (Wapnewski) ; “mitomane” (Bronsen) , “l’austriaco Harun al Raschid”. Roth stesso si è autodefinito/chiamato : Il Roth rosso ; un vecchio ufficiale austriaco ; un francese dell’est ; un europeo (…) , un uomo mediterraneo, se volete, un romano e cattolico, un umanista ed un uomo del rinascimento. Ha creato figure che non si assomigliano, secondo la sua immagine : il tenente Tunda ; il conte Chojnicki ; Carl Joseph barone Trotta di Sipolje ; Andreas, personaggio titolo della Leggenda del santo bevitore.

Talvolta l’arguzia provocante di Roth ha rischiarato la nebbia verbale come fa un lampo tra le nubi. Questo sono io realmente, scarabocchia l’autore nel 1938 sotto un disegno che lo mostra in una Kaffeehaus, cattivo, ubriaco, ma assennato. Talvolta Proteus appare anche sminuito come eroe di aneddoti che rendono trasparente lo charme e la noblesse di un uomo inconfondibile. (Roth cade in ginocchio nella stanza del redattore capo, si torce le mani e chiede un anticipo ; il redattore capo dice in tono distinto : “Devono alzarsi in piedi intere generazioni di scrocconi quando/se Joseph Roth comincia a fare richieste.” ) Roth ha lasciato alle sue spalle una leggenda – ed un’opera vivente, è questo che conta alla fine. Il mondo che creo dal mio materiale linguistico (così come un pittore dipinge con i colori) è l’unica cosa che conta/ha importanza/ha significato. L’esiliato conosceva la sua patria : La patria dello scrittore vero è la lingua (…) Questo giudizio/visione/convinzione, che in certo qual modo balena tra le righe, Roth non ha potuto di sicuro sempre conservare. Non smise mai di desiderare una patria, come ognuno possiede o vuole possedere. Roth ha vissuto e vive nella sua lingua, e chi lo cerca lo troverà, se mai da qualche parte, in questa lingua. Ma può la lingua dell’artista essere davvero “patria” oppure non è essa piuttosto un segno del desiderio di sicurezza/protezione? La precisione conservatrice della lingua di Roth esprime desiderio/nostalgia ed autoillusione , bisogno d’amore.

Le sue autotestimonianze hanno un certo valore espressivo per la psicologia dell’artista ; fuorvianti per la biografia ; disinteressate/non interessanti quando si tratta della teoria ; voluttuose nel rivestimento del sentimento. Si tratta dunque di mostrare l’immagine di Roth di sé stesso, di esaminarla contemporaneamente in modo critico e, per quanto possibile, di correggerla. Il nostro tentativo può basarsi su lavori fondamentali della ricerca su Roth e come tale non vuole essere niente più che una introduzione – tuttavia ha certo la pretesa/mira di non servire intenzionalmente nessuna leggenda : né le belle e tristi invenzioni del grande narratore su se stesso, tanto meno le leggende scientifiche che sono opera dei filologi. Gli autori lavorano talvolta a lungo e con pazienza a queste per poi smontarle con ancor più grande durezza/severità e pazienza. La nostra rappresentazione è invece/al contrario costretta ad un procedimento sommario : si tratta meno di ricerca – i suoi risultati vengono utilizzati – che d’informazione, più di trasmissione plausibile che di prova esaustiva, non di trattazione uniformemente dettagliata e della molteplicità degli aspetti, bensì dei punti di vista essenziali. Soprattutto deve prendere Roth stesso la parola, e precisamente, se possibile, in testi che sono in relazione l’un con l’altro ; poiché una volta prese/accettate buone idee, buone immagini, buone locuzioni, queste non crescono una nell’altra, dunque i membri di una catena senza legame, non bastano. Nella cosiddetta prosa è proprio il contesto che deve produrre una certa atmosfera. Così si esprime Roth nel 1926 scrivendo al giovane Bernhard von Brentano sulla prosa per il giornale ; in questa circostanza si tratta particolarmente di transizioni/passaggi/sfumature naturali.

David Bronsen, biografo di Roth, lui stesso figlio di genitori ebrei dell’est e cresciuto con l’jiddisch come lingua madre, studente a Vienna, più tardi professore in America, descrive nell’introduzione della sua biografia (“Joseph Roth”. Colonia 1974) l’avventura della nascita di questa : “Quanto più a lungo andavo avanti con le interviste e le ricerche tanto più mi diventava chiaro che Roth ad ognuno aveva saputo dare l’impressione che proprio lui era il suo migliore amico e poteva capirlo nel miglior modo possibile. Ma come si doveva reagire, nonostante questa scoperta, a tutte le divergenti dichiarazioni, per esempio alle tredici diverse versioni sull’identità di suo padre che Roth aveva fatto girare tra i suoi amici? Come si poteva fare chiarezza sul suo luogo di nascita che Roth aveva di volta in volta nel tempo chiamato/nominato diversamente? E quale conclusione si dovrebbe trarre dalle esternazioni/dichiarazioni contraddittorie degli amici che ribadivano sempre in tono convinto : “Roth era malinconico” ; “Viveva alla leggera” ; “Amava l’esercito” ; “Odiava l’esercito” ; “Era tenente nell’esercito imperiale” ; “Aveva il rango di un volontario di un anno” ; “Era un socialista” ; “Era un monarchico” ; “Era un ebreo di fede” ; “Era un cattolico fervente” ; “Era un solitario” ; “Era la persona più compagnona/sociale che ci si possa mai immaginare”? – A poco a poco cominciai a pensare che avevo a che fare con l’insuperabile forza immaginativa di un mitomane (…)”

Il valore del lavoro di Bronsen si trova soprattutto nel materiale biografico estremamente ricco da lui indagato. Ingeborg Sueltemeyer ha esplorato le fonti letterarie dello sviluppo da scrittore del giovane Roth (“Le prime opere di Joseph Roth 1915-1926. Studi e testi”. Vienna-Friburgo a Breisgau 1976). Essa completa il punto di vista di Bronsen attraverso un importante aspetto : “Al principio del “mitomane” (per lo meno dal formato di Joseph Roth) appartengono accanto al fabulare (…) il tacere e il mettere a tacere. Roth ha infatti provvisto un grosso ritaglio/spaccato della storia della sua vita negli anni più avanzati/tardi non in prima linea fabuleggiando con le leggende, ma semplicemente tacendolo : egli ha taciuto/passato in silenzio il suo impegno politico negli anni tra il 1919 ed il 1925. E per questo/così il suo biografo ci passa sopra senza prenderlo in considerazione.”

Accanto alle indagini/ agli studi di Bronsen ed Ingeborg Sueltemeyer il catalogo dell’esposizione su Joseph Roth della Biblioteca Tedesca a Francoforte sul Meno del 1979 (la 2°, edizione migliorata ugualmente del 1979) è la fonte biografica attualmente più importante. Tale catalogo documenta contemporaneamente a grandi linee/schizzi l’opera complessiva e per la prima volta la storia dell’effetto/azione finora avuto/svolto : “Nella ricezione di Roth, che è iniziata nella Repubblica Federale Tedesca all’inizio degli anni cinquanta e che ha ricevuto dagli anni sessanta un effetto di/sulla massa grazie al mezzo della televisione, predomina/prevale sempre di nuovo il romanziere e narratore Roth – e a questo proposito/in questa occasione di nuovo soprattutto con le opere tarde, la Marcia di Radetzky, il Falso/sbagliato peso, la Cripta dei Cappuccini, la Storia della 1002° notte …”

D’altra parte gli autori sottolineano/ribadiscono il rango dei lavori giornalistici di Roth e dirigono l’attenzione su questa parte della sua opera oggi meno presa in considerazione nel pubblico. Così ne risultano cambiamenti d’accento politico, ma anche letterario. Di fatto i migliori lavori di Roth per il feuilleton sono superiori alla maggior parte dei suoi romanzi quanto a maturità artistica ; questi sono nel complesso anche più versatili ed offrono un maggior interesse di contenuto. I feuilleton di Roth, considerata la problematica fama di cui il genere gode in Germania, vivranno più a lungo di alcuni dei suoi “romanzi di giornale e di esilio”.

La nuova edizione, ampliata a quattro volumi (Opere. Data alle stampe da Hermann Kesten. Colonia 1975/76) permette il confronto. Purtroppo la scelta e la composizione sono arbitrarie così che l’utilizzo della edizione rimane difficile. Se Kesten avesse proceduto cronologicamente invece di seguire dubbi criteri formali, allora i collegamenti tra il lavoro giornaliero giornalistico e l’arte del romanzo sarebbero divenuti chiari in modo del tutto convincente.

Roth stesso, che durante tutta la sua vita professionale ha lavorato per i giornali e che prima del 1933 era uno dei più ben visti/considerati autori di feuilleton, considerava il lavoro da giornalista e da scrittore come un tutt’uno. In una discussione su dei nuovi libri di Egon Erwin Kisch e Alfred Polgar si è espresso nel 1925 sul diritto/pretesa e sulla problematica inerente alle prestazioni giornalistiche :

Quando dei giornalisti tedeschi scrivono dei libri hanno bisogno quasi di una scusa/di scusarsi. Come sono giunti a ciò? Vogliono le mosche dalla vita di un giorno salire al rango d’insetti più elevati/superiori? Vogliono queste, che vivono un giorno, conquistare l’eternità? Professori e critici fiancheggiano la via che conduce/porta ai posteri. I poeti, che per così dire erano legati già dalla nascita, vogliono talvolta tracciare un confine ben preciso tra il giornalismo e la letteratura ed introdurre nel regno dell’eternità il numerus clausus per “gli scrittori da giornata”. (…) Ma un giornalista può, deve essere uno scrittore del secolo. La vera attualità non è affatto limitata/confinata alle 24 ore. Essa è a misura del tempo non del giorno. – Questa attualità è una virtù che non potrebbe danneggiare neppure un poeta che non scrive mai per il giornale. Non saprei proprio perché un pronunciato senso per l’atmosfera del presente debba impedire l’immortalità. Non saprei proprio perché la conoscenza umana, l’intelligenza nella vita, la capacità di orientamento, la dote d’incatenare, ed altre tali debolezze che si rimprovera al giornalista, possano compromettere la genialità. Il genio vero e proprio si compiace persino di questi errori/queste mancanze.Il genio non volge le spalle al mondo, ma è del tutto rivolto a questo. Non è estraneo al tempo, bensì a questo vicino. Conquista il millennio perché domina il decennio in maniera così eccellente. La sfortuna di venire frainteso e disconosciuto non è la caratteristica/il segno di riconoscimento, bensì un incidente del genio. Egli condivide questo dolore persino con giornalisti mediamente dotati. Anche i buoni artigiani vengono disconosciuti di tanto in tanto. (irruzione dei giornalisti nella posteriorità/nel mondo dei posteri.)

Come Franz Tunda, l’eroe del suo libro La fuga senza fine, Roth stesso era in fuga per tutta la vita, che era sempre contemporaneamente una ricerca. La voluminosa opera scrittoria/da scrittore – l’autore morto a non ancora 45 anni ha pubblicato tredici romanzi, otto racconti nonché centinaia di quadretti da viaggio, feuilletons, recensioni e glosse, altri lavori sono apparsi postumi – varia solo pochi temi. I luoghi dove si svolge l’azione ed i personaggi ritornano : talvolta si assomigliano l’un con l’altro, talvolta Roth crea/produce delle identità parlando/riferendo di luoghi inventati (Sipolje) e personaggi inesistenti (Kapturak, Skowronnek, Nechwal, Slama, Lakatos, Trotta) in opere diverse e così finisce per creare una continuità epica. Per questo procedimento c’erano motivi esteriori, tuttavia prevalentemente interiori : Roth scriveva spesso sotto pressione temporale, in esilio era privo di mezzi, talvolta per la nuda e cruda sopravvivenza. Ciò non rimase senza ripercussione/effetto/conseguenza sulla scelta dei suoi contenuti, e neppure sulla qualità di ciò che scriveva. Ma principalmente era solito ripetersi per elaborare determinate esperienze di base della sua vita. Proprio queste esperienze hanno fatto di lui un narratore. Egli scrisse/scriveva in qualità di ferito come un ferito vero e proprio, in possesso di una ferita – poiché la custodiva come un talento -, per ricordo preciso, creduto/sentito nel suo più profondo, guidato dalla paura e da un’inesauribile speranza. Ha descritto così il nocciolo della sua esperienza : La mia esperienza di vita più forte è stata la guerra ed il tramonto/la fine della mia patria, l’unica che ho mai posseduto : la monarchia Austro-Ungarica. La sua intera opera è segnata da questa perdita. L’Austria-Ungheria è sicuramente soprattutto un simbolo storico per il suo desiderio/nostalgia di un paese del padre.

Diversamente da molti autori della sua generazione – si pensi a Kafka! -, che parlano/riferiscono dello strapotere dei padri, Roth ha dovuto vivere realmente senza padre. Lo ha cercato nella sua fantasia e nei suoi sogni. Ed il poeta Roth ha trovato il padre : lo ha trovato nel grande rispettabile stato, che aveva protetto la sua giovinezza, il cui simbolo vivente era l’imperatore padre/ il padre imperatore. E’ stato il vecchio Francesco Giuseppe un buon padre per i suoi ebrei della Galizia? I raggi del sole asburgico si allargavano ad oriente fino al confine dello Zar russo, si dice nella Marcia di Radetzky ; era un sole freddo (…) , comunque pur sempre un sole.

E’ diventato Roth come poeta di un mondo colato a picco/che si è inabissato un laudator temporis acti che romanticizza la realtà attraverso una rappresentazione magnificante mancando così in modo pericoloso dal punto di vista politico? Oppure ha potuto richiamare alla mente lo storico processo in maniera più forte attraverso il suo modo di scrivere di quanto avrebbe potuto qualsiasi discussione diretta? Queste domande conducono nel più grande contesto della rappresentazione della vecchia Austria nella poesia. Per Claudio Magris ed il suo brillante libro “Il mito asburgico nella letteratura austriaca” Roth rappresenta uno dei più importanti testimoni. L’austroslavismo di Roth ed il suo sogno di un’Austria che confina storicamente con la Spagna sarà da esporre in un capitolo particolare. Se si parte dal problema personale di Roth allora il suo mondo dei pensieri forma sicuramente solo una sovrastruttura. Per Roth si trattava meno del fatto come lo stato austriaco fosse fornito (e di descriverlo corrispondentemente ) quanto del fatto che esso c’era/esisteva. Gli avvenimenti storici dopo il 1918 mostrarono che cosa significava/significasse la mancanza di tale stato : assenza di patria, miseria e morte per milioni di persone. Roth cercò protezione e sperimentò in prima persona assenza di protezione. Dietro la sua immagine della vecchia Austria stava, come ha formulato Reich-Ranicki, “non un giudizio/visione/convinzione, bensì un desiderio/nostalgia”. Con il suo pensiero indirizzato/rivolto alla restaurazione Roth corrispondeva ai potentissimi desideri dell’anima. Si era cercato un posto nella realtà politico sociale ; quando si vide deluso/si accorse di essere deluso creò “il suo paradiso dall’Austria asburgica”.

Una volta/un tempo il suo bisogno da fanciullo aveva fatto domande sull’esistenza di un padre – non sulle sue qualità. Più tardi aveva trovato un padre e lo aveva provvisto/fornito di tratti fantastici. Anche l’Austria viveva soprattutto nella sua fantasia. Chi era il padre che risiedeva nella Hofburg? L’imperatore Francesco Giuseppe I, in virtù della sua carica protettore del credo/della fede e della giustizia, apparteneva a quelle figure austriache alle quali la leggenda va incontro più velocemente della storia. Roth lo vedeva come la figura archetipo che di fatto l’imperatore stesso era diventato non solo per lui, ma per milioni di altre persone. Il padre si chiama Francesco Giuseppe I, ha formulato Roth (dalla prospettiva dell’imperatore ) nel Discorso sul vecchio imperatore, uscito postumo nella rivista/nel giornale “La posta austriaca” il primo Giugno 1939. Il tema di Roth è la “Totalizzazione del rapporto padre-figlio e figlio-padre, collegato all’esperienza di una “grande realtà storica” ed al vivere in prima persona il suo tramonto/fine in guerra e nella rivoluzione”. (Schopenhauer) A questo si aggiunge inoltre “ l’antagonismo tra il mondo orientale ed occidentale e l’autoriconoscimento dell’autore che comprende il suo destino nel destino sovraindividuale della monarchia e degli ebrei (…) – come pellegrinaggio e fuga e come ricerca della patria perduta “.

Ora/quindi/a questo punto non basta sicuramente dire che Roth ha perduto la sua patria ; innanzitutto l’ha abbandonata. Assimilante quale egli era si recò a Vienna e a Berlino per diventare uno scrittore tedesco ; egli scoprì a Parigi e nel sud della Francia ciò che voleva essere propriamente come autore : francese. Chi non è mai stato qua è solo un mezzo uomo, scrive nel 1925 da Parigi, (…) potrei piangere quando attraverso i ponti sulla Senna, per la prima volta sono scosso/mosso a commozione dalle case e dalle strade, qua mi sento proprio a casa (…) Lui era un francese dell’est ha formulato un anno dopo in una lettera a Bernard von Brentano.

Stendhal e Flaubert hanno formato/dato forma alla sua lingua. Non ha mai smesso di ammirare la concisione, precisione e logicità/conseguenza dello stile latino francese/francese latineggiante. Non molto prima della propria morte nel suo saggio su Clemenceau definisce questo politico uno dei più geniali risparmiatori di parole, la cui bocca non pronunciò mai alcuna sillaba senza significato, la cui penna non scrisse mai alcuna sillaba senza meta e fine. Roth si è impadronito/appropriato di questo stile già presto ed apparentemente senza troppa fatica, così tanto era ben dotato/talentato per questo e così tanto lo ha amato. ( Di fatto lavorava con pazienza ; La fretta (…) non va di pari passo con il fulgore.) ma il suo cuore rimase immutato in questa scuola di prosa. Il fanatico della chiarezza ( Bisogna tacere non solo quando non si ha niente da dire, bensì anche quando non si è in grado di esprimere qualcosa con precisione ) rimase sempre l’ebreo austriaco della Galizia quale egli era. Quale – dal punto di vista artistico sicuramente felice – tensione tra lo stile privo di pesantezza, quasi sereno della Leggenda del santo bevitore ed il suo contenuto mistico. In tono esasperato si lascerebbe dire/si direbbe : nessuna lingua sembrò più inadatta ad esprimere il dolore indefinito/non definibile di Roth, quanto quella precisa che lui solo si permise. Una persona priva di misura nelle sue emozioni ha scritto in una lingua della misura. Ma allora che cosa voleva Roth in verità? Dal punto di vista estetico il suo modo di procedere è logico. L’espressione artistica della mancanza di colui che non ha misura è proprio la misura. L’artista Roth era salvo, l’uomo sicuramente ancora più rivelato di quanto fatto fino ad ora. Credo di conoscere il mondo solo quando scrivo, e quando ripongo la penna sono perduto. L’alcool non è una causa, bensì una conseguenza (…)

La fuga senza fine, uscita nel 1927, definita dall’autore nel sottotitolo non come romanzo, bensì come reportage, ha una premessa di sei righe che porta la data di Parigi, Marzo 1927, questo lavoro doveva acquistare un significato/importanza programmatico per la direzione attuale di allora della “ Nuova obiettività “ : Non ho inventato né composto nulla. Non si tratta più del fatto di “ poetare “. La cosa più importante è ciò che si è osservato. Il racconto comincia con un gesto d’identificazione : il tenente Tunda viene introdotto come figlio di un maggiore austriaco e di un’ebrea polacca,questi proviene da una piccola città della Galizia, il luogo dove è stazionata la guarnigione di suo padre. Del tutto ugualmente risuona/risulta l’autodichiarazione di Roth ( una delle molte, solo particolarmente caratteristica ) sulla sua provenienza. La conclusione del reportage La fuga senza fine dice tuttavia : Era il 27 Agosto 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano pieni, negli empori si accalcavano le donne, nei saloni di moda si giravano le indossatrici/gli indossatori, nelle pasticcerie chiacchieravano i fannulloni, nelle fabbriche rumoreggiavano le ruote/gli ingranaggi, sulle rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, a Bois de Boulogne si baciavano le coppiette d’innamorati, nei giardini i bambini facevano giri nella giostra. Era a quest’ora che là stava il mio amico Tunda , sano e fresco , un robusto giovanotto/giovane uomo in possesso di ogni tipo di talento , sulla piazza davanti alla Madeleine , nel bel mezzo della capitale del mondo e non sapeva che cosa dovesse fare/che cosa fare. Non aveva alcun lavoro/professione , nessun amore , nessuna voglia , nessuna speranza , alcuna ambizione e neppure dell’egoismo. – così superfluo come lui non c’era nessuno al mondo.

Anche Roth aveva allora trentadue anni, un giovanotto/un uomo giovane dai molti talenti.

Un ebreo dell’est alla ricerca di una patria – ma Roth ha rigettato/considerato in modo quasi sprezzante il sionismo come bassa possibilità pratica. Agli occhi di molti dei suoi compagni di credo un infedele/ribelle/rinnegato, tuttavia lui era affascinato dalla missione/dall’invio degli ebrei, essere un segno di Dio nel mondo. Come lui stesso aveva spiegato l’ebreo aveva motivo di temere i cambiamenti, poiché l’esperienza ha mostrato che attraverso essi la sua situazione non sarebbe stata migliorata. Se questo valeva già per il patire passivo, allora aveva un valore ancora più forte per una colpa causata da un agire dubbio. Il sionismo dovette gravare l’ebraismo di/con tutti i problemi del nazionalismo violento, di cui i popoli europei soffrivano, mentre la storica chance per gli ebrei nella monarchia era posta proprio nel superamento del nazionalismo attraverso una unità sovranazionale. Joseph S. Bloch aveva già definito gli ebrei come “ austriaci senza parola “. “ Se si fosse potuta costruire una nazionalità specificatamente austriaca allora gli ebrei avrebbero formato la base di questa.” Con l’ascesa/avvento del Terzo Reich a potenza dominante nell’Europa orientale e meridionale l’aspettare il messia divenne aspettare la morte, come Isaac B. Singer ha dato forma nel suo romanzo “ La famiglia Morzat “.

“Siberia-Parigi con fermate intermedie” ha scritto sopra la sua recensione della Fuga senza fine Siegfried Krakauer nel “Frankfurter Zeitung”. Egli celebra il ritmo latino ed il suono della lingua di Roth, la trasparenza di questa, il tono “di un chiaro lutto. Nessuna protesta che si dirige contro il tempo, bensì un senso di lutto, presente in modo fisso.” Il lutto ha “occhi”, va/passa “leggero e chiaro come attraverso la neve”. La via di questo lutto è irritante, è come la via di Roth senza una meta precisa/definita.

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