venerdì 20 maggio 2011

Saggi (VIII parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Claudio Magris

L’Ulisse ebreo dell’est – Roth tra impero e Golus

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

I LA PATRIA

Semjon Juschkewitsch, uno scrittore ebreo di Odessa, nel suo racconto Ghetto fa tornare in vita una vecchia tradizione di quel tempo per mano di un personaggio, “ quando noi ( cioè gli ebrei ) avevamo il nostro proprio regno. “ Secondo quella tradizione quelli che si erano resi colpevoli di particolari atti venivano spogliati, ricoperti di miele ed esposti alle api che presto sopraggiungevano. Una volta – prosegue il racconto – quando un condannato era già invaso dal primo sciame di insetti questi fu riconosciuto da un vecchio amico che passava di lì per caso. Questo si mise subito a scacciare le api per lenire i dolori dello sventurato. Ma con sua grande sorpresa gli fu richiesto dallo sventurato di lasciar perdere. “ Le api che sono disseminate nel mio corpo ficcandovi il loro pungiglione hanno compiuto la loro opera e non possono più farmi del male. Se tu le cacci via, dando così ascolto al tuo animo buono, subentreranno subito delle altre al loro posto ed i miei dolori raddoppieranno. Perciò ti prego, lascia stare le cose così come sono, e lasciami al mio destino. “

In questa novella dell’ebreo russo Juschkewitsch, nato nel 1868 e morto a Parigi nel 1927, la figura dell’eroe dolente nella sua stoica passività non si contrappone all’instabile vita umana o all’incerto destino, e neppure alle contraddizioni della vita morale, come avrebbe potuto fare uno stoico martire del barocco, bensì rifiuta la dialettica stessa della storia. Un ebreo perseguitato non si difende con la rabbia/impeto di un Prometeo contro il dolore, né tanto meno accetta il suo destino da martire in devota umiltà, ma ha sfiducia in prima linea nel cambiamento, nega la logica della storia rigettando la speranza messianica di una rivoluzione. “ Noi subiamo la storia “, dirà Kafka , mentre è a meditare nelle strade di Praga con il suo amico Gustav Janouch sull’antistoricismo ebreo; pochi anni dopo Joseph Roth scrisse nel suo saggio EBREI ERRANTI (1927) sugli ebrei dell’est:

La maggior parte sono piccolo borghesi e proletari senza coscienza proletaria. Molti
sono reazionari per istinto borghese, per amore della proprietà e della tradizione, ma
anche per la paura non infondata di una situazione mutata che per gli ebrei potrebbe
risultare non migliore della precedente. E’ una sensazione storica, nutrita da esperienze,
che gli ebrei sono sempre le prime vittime di ogni spargimento di sangue prodotto dalla
storia mondiale. (III, 633)

Certo si nota in questo ed in altri simili passi del saggio di Roth anche la necessità di controbattere la propaganda antisemita di quegli anni che mette l’ebreo – e soprattutto l’ebreo fuggiasco dell’est – sullo stesso piano del rivoluzionario ostile allo stato (oppure al contrario con lo sfruttatore capitalista). Ma c’è anche un motivo più profondo in queste righe nelle quali emerge la tipica presenza di una storia impersonale ed automatica, di fronte alla quale l’uomo è impotente e passivo, un essere debole e senza difese che nella tempesta che si sfoga su di lui , come su di una “ cannuccia nella corrente della storia, che nuota ed è strappata via “, come scrisse Roth nella sua novella APRILE. LA STORIA DI UN AMORE (1925) (III, P 57) non può riconoscere neppure una legge causale. L’intera opera di Roth porta le caratteristiche tedesche di un romanzo storico dove la storia come divenire e scorrere viene negata; è la prova di un anelito alla fedeltà. Una fedeltà che si esprime nel salvataggio metodico e penosamente minuzioso di ogni piccolo evento della vita e di ogni consuetudine familiare, a cominciare dal pedante rituale del dialogo tra padre e figlio all’inizio delle ferie nella MARCIA DI RADETZKY (1932) fino al grottesco rifiuto del conte Morstin di accettare il mondo, quale esso è , dopo il crollo della vecchia Austria (LE BUSTE DE L’EMPEREUR, 1934). Per Roth la storia significa diaspora, esilio : e nell’esilio ogni nuovo cambiamento può significare solo un nuovo esodo/fuga dall’Egitto, una nuova diaspora oppure un nuovo pogrom. O per meglio dire, “ non c’è alcun alternarsi “, come espresse il saggio Eunuco all’irrequieto Schah. (Nell’opera : LA STORIA DELLA 1002° NOTTE, 1939; I, 634).

In quasi tutte le sue opere e particolarmente nell’opera EBREI ERRANTI Roth dirige il suo sguardo in doppio senso alle “ madri “, ad una umanità completa ed inviolata ed a una comunione di sentimenti intoccata ed immediata : il suo sguardo vale per tutto ciò che lui chiama la “ patria “, la perduta ed irraggiungibile patria. E’ noto con quanta insistenza Roth ha messo di fronte la “ patria “ al “ proprio paese “ oppure la desiderata unità di ambiente e persona alla collettività, ciò è aggressivo, razzista e barbaricamente orgoglioso del suo nazionalistico “ segno di Caino “ (III, 637). Per l’ebreo della diaspora il “proprio paese” è un’immagine al servizio degli idoli, sia sotto i brutali stivali prussiani che tra i disumani grattacieli americani; rifugio dai dolori dell’esilio, l’amore ed i sentimenti esistono solo nella patria : in una “ madrepatria “ per usare una parola che ha segnato/improntato la grande poetessa ebrea Else Laskerschueler e che secondo Giuliano Baioni “ significa una completa equiparazione di patria e madre, cioè la madre è la patria, il rifugio, la casa, il confine perduto “.

Come per così tanti altri scrittori del suo tempo, da Zweig fino a Werfel, anche per Roth è l’unico possibile paragone storico di questa “ patria “ o in ogni caso il più vicino ed il più simile quello con la realtà del tramontato impero austro-ungarico. E’ palese che gli ebrei, come nazione straniera in mezzo alle altre, si riconoscessero più facilmente in uno stato sovranazionale che poggiava, almeno teoricamente, sul fondamento di superare le nazionalità. Nel dramma di Franz Theodor Csokor Il tre Novembre 1918 viene descritto come l’astio nazionalistico s’infiammi tra gli allora appartenenti all’esercito imperiale., e come le persone sentano il richiamo dei nuovi propri paesi, o meglio il richiamo della foresta degli atavici istinti di razza che erano stati messi a sopire in uno stato amministrato burocraticamente ; l’unico che si riconosce come erede dell’Austria è l’ebreo dott. Gruen. Con l’anelito ad un impero dissolto collega Roth il suo desiderio di quella unità completa e chiusa che lui riconosce anche nella coesione delle forme religiose, umane e morali dell’ebraismo orientale, che oramai è perseguitato e minacciato anche dalle vicende/fatti. La storia, che distrugge le forme forse illusorie di questa unità , è la metastoria, un diluvio universale biblico e nel contempo sconsolatamente moderno, come la cupa pioggia che caratterizza l’inizio della Grande Guerra : “ Cominciò a piovere. Era un giovedì. Il giorno successivo, dunque venerdì , la notizia stava attaccata già a tutti gli angoli delle strade. Era il manifesto del nostro vecchio imperatore Francesco Giuseppe, e diceva : “ Ai miei popoli “ ( I, 345 ). Così Roth descrive nel suo romanzo tardo LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI (1938) l’inizio della fine, l’inizio del crollo della vecchia Europa e di quell’impero asburgico che per lui e così tanti altri scrittori era stato un impero, una dimensione dell’anima ed una struttura spirituale ancor più che una compagine politica. Ma gli imperi cadono ed il messia non arriva : per l’ebreo dell’est Joseph Roth il crollo dell’Europa centrale diventa una parabola, una favola allegorica della lacerazione e solitudine dell’uomo moderno, che sradicato completamente, è abbandonato da tutte “ le madri “. Con ciò avvengono contemporaneamente l’emigrazione dei sopravvissuti degli Asburgo, la dissoluzione umana e religiosa degli ebrei dell’est ed il frastagliamento dell’uomo moderno – o per meglio dire dell’uomo occidentale – in generale.

Secondo la sua natura da scrittore epico Roth dovrebbe magnificare un ordine quale si trova nelle gerarchie omeriche dell’Olimpo e delle schiere achee, come Marthe Robert nel suo studio su Cervantes e Kafka ha notato con spirito acuto, o come compare nel Pantheon di Virgilio come garante di futura celebrità. Roth invece racconta sempre di un nostos, un ritorno a casa dopo una sconfitta ; il suo racconto comincia quando l’Iliade è già finita e la guerra di Troia è perduta, secondo la convinzione di Francesco Giuseppe che si “ perde esse (cioè le guerre) “ ( I, 202 ). E’ tipico di Roth di non essere mai riuscito, come appassionato sostenitore del mondo di ieri , a magnificare davvero l’impero, il passato. Quando lui richiama in vita il ricordo, allora finisce per descrivere involontariamente un mondo di fantasmi senza possibilità umane : il mondo della MARCIA DI RADETZKY è un limbo dei morti che soffoca nell’uomo ogni gioia ed energia, il mondo della STORIA DELLA 1002° NOTTE un affascinante, ma spietato ammassarsi di convenzioni che opprimono i deboli ed i buoni come la fragile Mizzi Schinagl. Hansjuergen Boening ( pag. 127 ) ha puntato il dito sull’ambiguità che il ripensare con malinconia al “ allora/un tempo “ , allo spesso e suggestivamente usato “ allora/un tempo “ in Roth suppone : il narratore, che scrive nel dopoguerra, ripensa con malinconia alla felicità di “ un tempo “ ma i personaggi del suo racconto, che vivono nel tempo di “ allora “, trovano questo tempo opprimente e guardano da parte loro indietro ad un “ allora “ che non c’è mai stato. Rapsodo della moderna sconsolatezza Roth s’identifica con la memoria collettiva di un lessico familiare, che è popolarmente conservativo e – in senso traslato – dialettale, e che anela alla storia di ieri, anche se la storia di ieri rimane sempre tramonto/fine, sconfitta, esilio. “ Viviamo proprio nel Golus “ è il rassegnato, imperturbabile e quasi umoristico sospiro dell’ebreo della diaspora di fronte ad ogni nuova disgrazia. Come nella mistica la cabala – in particolar modo in Yitzchaq Luria, che ha trasmesso/riportato la storica paura della cacciata degli ebrei dalla Spagna in concetti metaforici, - così anche per Roth il religioso mito dell’esilio diventa mito di riserva, simbolo dell’esilio dell’uomo moderno e di ogni essere vivente sotto un cielo di piombo alla cui fine non si apre alcun portone in un altro cielo, come pensano i deportati politici che nel suo romanzo IL PROFETA MUTO (ca. 1927-30 ) si dirigono in Siberia incatenati l’un all’altro ( pag. 97 ). L’Odissea è in Roth un ritorno a casa alla ricerca di una patria che non è da riacquistare in alcuna misura spaziale e temporale. Nel ciclo senza riscatto dell’esperienza storica la patria emerge solo in un presente storico atemporale in momenti di dimenticanza estatica che non riacquistano alcun passato determinato o determinabile dal punto di vista spaziale (che rimane sempre vuoto e desolato) ; questi momenti provocano invece una eliminazione del tempo determinando una mitica atemporalità della fanciullezza, dell’immediatezza e del rapporto completo tra l’anima e le cose. Il ritmo incalzato del racconto viene interrotto da una pausa che non è alcun richiamo in vita e racconto del passato, bensì una reale assenza di tempo, un’affascinante fanciullezza poiché questa è affascinata, che – come ha detto Maurice Blanchot – non scopre nulla e da nulla viene scoperta, ma è/esiste solo “ pur reflet (…) le rayonnement d’une image “. “ Ed era estate. Sì, era estate. “ (LA MARCIA DI RADETZKY, I, 20) Il biblico “ e “ ed il “ sì “ all’inizio trattengono un po’ ciò che non c’è mai stato, non l’estate priva di colori nella piccola città morava senza espressione, bensì la pura libertà di un ricordo indefinito, di un sospiro ed una spinta/impeto verticale per rompere il ciclo del ritorno storico, che è sempre uguale e tuttavia distruttivo. A Carl Joseph von Trotta, lo stanco nipote, appare nella mente l’mmagine del paese sloveno degli avi mai visto tra montagne sconosciute e sotto un sole altrettanto sconosciuto (I, 56); anche nel lutto per l’amico morto Max Demant il cuore di Carl Joseph von Trotta cerca rifugio nella presenza assoluta della “ patria “ : “ Si mise davanti alla carta dello stato maggiore (…) si trovava nell’estremo sud della monarchia, il bel tranquillo paese (…) E’ sera a Sipolje. Le donne stanno davanti alla fontana con fazzoletti copricapo di vari colori, tinte d’oro dal tramonto infuocato “ (I, 107). Oppure qui altri esempi : i momenti d’amore che vengono trattenuti nei pensieri della signora Taussig (I, 233) o la terra umida che cede sotto gli zoccoli dei cavalli (MARCIA DI RADETZKY; I, 123) oppure ancora le stelle che hanno un aspetto meno severo nel cielo orientale (IL FALSO PESO/IL PESO SBAGLIATO, 1937; I, 461) o il tempo del disgelo della primavera ucraina per il solitario Nikolai Brandeis nell’opera DESTRA E SINISTRA (1929; II, 562). Nel romanzo di Napoleone I CENTO GIORNI (1935) rimangono alla povera Angelina della sfortuna della storia e delle delusioni amorose solo l’eternità spirituale e fuggente della fanciullezza ad Ajaccio e le felici notti passate con il padre sulla barca (II, 698, 711).

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