sabato 14 maggio 2011

Saggi (III parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Adolf D. Klarmann

L’immagine dell’Austria nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

La cosa che più scuote proprio nella sua definitezza è l’accettazione rassegnata della fine, soprattutto nel vecchissimo imperatore che certo si gode le manovre ancora con la gioia fanciullesca della senilità, ma tuttavia da tipico austriaco qual è, accetta senza protesta o lamentela ciò che deve venire. Mentre osserva col binocolo la sfilata del suo amato esercito è al contempo anche in lutto per la fine di questo che si avvicina:

Poiché lo vedeva già andato in pezzi e disseminato, diviso tra i tanti popoli del suo

esteso impero. Per lui stava tramontando il grande sole dorato degli Asburgo,

andato in frantumi nell’abisso primordiale dei mondi, cadeva a pezzi in innumerevoli

piccole sfere solari che dovevano risplendere come stelle autonome di nazioni

indipendenti. “Non si addice loro di venir governati da me”, pensava il vecchio. “Qua

non ci si può fare niente”, aggiunse in silenzio. Poiché lui era un austriaco. (211)



In quest’ultima frase si trova la summa del darsi al destino di stampo barocco austriaco.

Il raggiante giovane imperatore di Solferino, al quale durante la sua mitica lunga vita non era stato risparmiato niente, è ora sopravvissuto a sé stesso. Ma finché gli è rimasta la forza di tirare su un respiro continua a vivere il suo regno con gli ultimi spasmi. Una grande figura storica è ora divenuta un vecchio distante dalla realtà al quale il suo tempo volta le spalle, solamente troppo pronto a non badare al nuovo. Una figura commovente, con la goccia al naso, degno di commiserazione e già un po’ confinante con il ridicolo.

Riassumiamo: All’inizio del romanzo siamo nel bel mezzo del diciannovesimo secolo. Alla reazione riesce ancora soffocare le conseguenze del 1848, e si ha quasi l’impressione che l’orologio della progressione storica sia retrospostabile. Ma presto si fa notare già un barcamenarsi politico a cui l’onesto eroe di Solferino deluso non vuole più partecipare ed indispettito prende commiato dal suo esercito. Successivamente viviamo ancora le dorate giornate autunnali del risorgimento austriaco, tuttavia similoro. Nel simbolismo ironico la Marcia di Radetzky intonata dalla cappella di reggimento davanti al capitano distrettuale può ancora suscitare negli ascoltatori la sensazione elevata del marciare di pari passo con gli altri, delle gambe che si alzano ritmicamente e delle teste che annuiscono, e nei militari in congedo i ricordi eroici dei giorni gloriosi delle manovre. Ma al contempo si fanno riconoscere già chiaramente da una parte i moti irredentistici e dall’altra gli inizi dell’irreverenza socialista davanti ai vecchi sacri valori. Questi storici mutamenti vengono rivissuti in modo significativo non come ci si aspetterebbe a Vienna, capitale dell’impero e residenza dell’imperatore, bensì proprio nelle province slave, culminando nell’estremo lembo orientale dell’impero. Così accade anche alla fine del mondo austriaco, già al confine russo, che si spara su lavoratori che scioperano. La forza decisionale e la disciplina dell’esercito sbattuto là sotterra la triste noia di là, questa sprofonda nell’alcool e nel gioco d’azardo. E là si può sperimentare in prima persona anche nel bordello la più alta parodia del patriottismo nell’immagine della salma eterna dell’imperatore con gli occhi blu porcellana sporcata dalle mosche.

Joseph Roth percorre il tragitto da Solferino a Sarajevo senza sentimentalismo. Nonostante il suo entusiasmo per la monarchia lo percorre tuttavia in ultima analisi con una certa soddisfazione ironica. La sua MARCIA DI RADETZKY è uno spaccato di un mondo al tramonto in cui l’uomo non tragico cerca a tastoni un senso esistenziale, una fine per le cui conseguenze il mondo si ammala, e la cosa ancor più tragica è quando questa ci viene incontro dal romanzo.

Werner G. Hoffmeister

„Un genere molto particolare di simpatia“ – Stile narrativo e descrizione dei pensieri nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

“L’obiettività del narratore richiede un genere molto particolare di simpatia per le persone da descrivere, una simpatia letteraria di cui può gioire a seconda delle circostanze persino un furfante.” (III,250). Questa massima, che si trova in un feuilleton di Joseph Roth, mette in evidenza una tensione che costituisce il suo modo di narrare: la tensione tra obiettività narrativa, distanza critica e riflessione ironica da una parte e quella ben sentita “simpatia letteraria” per i personaggi dall’altra. Nel capolavoro di Roth, la MARCIA DI RADETZKY, non ci sono tuttavia “furfanti” che avrebbero da strappare al narratore la simpatia letteraria, proprio come non ci sono eroi che fino dall’inizio avrebbero diritto alla simpatia. Invece sia i due protagonisti, Carl Joseph von Trotta e suo padre, il capitano distrettuale, che la maggior parte dei personaggi secondari appartengono all’uomo medio. Né il capitano distrettuale irrigidito nel modo di pensare e di comportarsi tramandato né suo figlio Carl Joseph, incapace di vivere e irrisoluto, considerati empiricamente, rappresentano una figura attraente o simpatica. I due diventano interessanti e significativi dal punto di vista letterario per la funzione da loro svolta nell’intera opera, cioè per il fatto che vengono elevati a tipici rappresentanti della decadente monarchia asburgica, e ciò attraverso il modo della rappresentazione narrativa.

Il procedimento narrativo con il quale Roth suscita nel lettore della MARCIA DI RADETZKY la “simpatia letteraria” per le figure poggia in gran parte sulla prospettiva assai mobile del narratore onnisciente. Questo narratore, che non appare nell’opera come personaggio, ma la cui voce è spesso percepibile, considera le sue figure sia dall’esterno che dall’interno, questi trasmette avvenimenti ed informazioni nonché pensieri, sentimenti, stati d’animo e ricordi delle figure ed ha accesso ai moti dell’anima più delicati ed intimi. Non solo le vicende interne di Carl Joseph e di suo padre, ma anche i pensieri ed i sentimenti di altre figure vengono trasmessi al lettore dalla prospettiva che guarda all’interno, con l’aiuto del discorso vissuto e del resoconto di pensiero. Questi non dà nemmeno una limitazione di carattere sociale nella scala delle descrizioni interne; l’intenzione di Onofrio di disertare dall’esercito, ed il triviale pensiero di successo del consulente commerciale Knopfmacher vengono aperti al lettore ugualmente dall’interno come le associazioni di pensiero del vecchio imperatore Francesco Giuseppe che di notte fantastica sul futuro dell’impero, sul suo raffreddore tenuto nascosto al mondo esterno e sulle gioie delle manovre che avranno luogo nell’immediato futuro.

La personale prospettiva narrativa che domina gli ampi tratti del romanzo costringe il lettore nello spazio interno, nel campo del vissuto di ogni personaggio. Questa crea un rapporto intimo tra i due e fa considerare al lettore inoltre il mondo rappresentato nel romanzo ( gli avvenimenti, la compagine sociale, le convenzioni sociali )con gli occhi dei personaggi ivi compresi. Accanto alla prevalente creazione scenica delle singole fasi narrative nonché del ricchissimo uso del dialogo la prospettiva narrativa personale è il mezzo narrativo più importante per rendere presenti le singole situazioni narrative, per schiudere lo spazio sociale e storico del romanzo dal punto di vista prospettico e per far simpatizzare il lettore con i pensieri, i sentimenti ed i conflitti dei personaggi. L’interesse e la simpatia del lettore per una esistenza umana in sé e per sé così mediocre come quella del tenente Carl Joseph von Trotta vengono creati attraverso una tattica narrativa che costringe il lettore ad una continua per così dire puntuale identificazione con il personaggio condizionata dalla situazione. Lo stato di solitudine di Carl Joseph, la malinconia e l’autocompassione, le sue paure, i suoi desideri e le sue illusioni, le sue riflessioni sui suoi avi, le sue pene d’amore nonché le sue difficoltà nelle faccende d’onore: tutto ciò viene messo al lettore davanti agli occhi attraverso la coscienza di Carl Joseph. Allo stesso modo viene suscitato l’interesse del lettore per il personaggio del pedante, corto di vedute e conservatore capitano distrettuale; le sue preoccupazioni per il figlio, l’onore della famiglia, le tradizioni monarchiche nonché la sua paura di fronte a sintomi di decadimento politico e culturale ci vengono mostrati per mezzo di diverse tecniche della descrizione di coscienza. L’interesse del lettore viene manipolato con l’aiuto della prospettiva narrativa personale a vantaggio del singolo personaggio. Per mezzo di questa tecnica narrativa si apre al lettore un mondo umano interiore estremamente ricco di contenuto, creato prospetticamente, che dal canto suo diviene specchio di quella mentalità generale e di quel clima culturale che sono caratteristici della rappresentazione della fase finale della monarchia austro-ungarica.

Al lettore politicamente conservatore della MARCIA DI RADETZKY non risulterà difficile riconoscere in parte la sua propria malinconia ed i suoi propri sentimenti nella malinconia e nei sentimenti dei personaggi del romanzo. Egli tenderà troppo facilmente a vedere nel romanzo un’apologia o persino un’apoteosi della tramontata monarchia. Ma Marcel Reich-Ranicki ha espresso un ammonimento che colpisce nel segno quando ha osservato su Roth: “Ai suoi lettori lui ha reso sempre la vita facile ed ai suoi interpreti l’ha resa sempre difficile.” Per il nostro contesto ciò potrebbe significare: il lettore viene troppo facilmente tirato dentro in un rapporto di simpatia con i personaggi del romanzo, invece all’interprete viene posto il compito d’identificare questo rapporto di simpatia come tecnica letteraria, come arrangiamento narrativo e di riconoscere la critica “obiettività del narratore” con la quale Roth ha creato il romanzo come correttivo artificiale.

Non si giustifica la struttura complessiva del romanzo e la sua intenzione se, come fa Hansjuergen Boening (pagg. 32, 37), si taccia il narratore come “strenuo conservatore” e lo si ritiene un “laudator temporis acti” che “idealizza” il mondo della doppia monarchia austro-ungarica “ in modo malinconico e indulgente”. Boening (pag. 99) constata giustamente che il narratore tende ad “appoggiare” psicologicamente i suoi personaggi, ma giunge all’ingannevole conclusione che non ci sarebbe alcuna determinante differenza tra la mentalità del narratore e quella dei personaggi: “ Assumendo un atteggiamento di lutto insieme ai personaggi il narratore mostra il crollo di un’età dell’oro.” Anche per Hartmut Scheible (pag. 68), che nega l’onniscenza e la capacità di riflessione del narratore, questo è “ entrato nella sfera dei personaggi del romanzo, è sconcertato come loro, a lui è rimasto il gesto dell’onniscenza, neppure questo stesso.” Ed anche Georg Lukacs, che dà alla MARCIA DI RADETZKY un alto valore artistico e critico sociale, trova nel narratore “ lutto sentimentale “ e “ simpatia romantica per la monarchia asburgica.”

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