mercoledì 11 maggio 2011

Saggi (I parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Adolf D. Klarmann

L’immagine dell’Austria nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all'italiano di Gianni Casoni.

Sarebbe un presupposto sbagliato se si volesse vedere in Joseph Roth, creatore di un proprio personale mito austriaco, un’immagine dell’Austria unitaria cresciuta assieme in modo organico dove avrebbe trovato la sua espressione il dolore per il tramonto dell’impero come ingiustizia storica. Davanti ai nostri occhi si srotola piuttosto l’immagine di una monarchia che si avvicina inesorabilmente alla sua fine. Il suo destino viene descritto sull’esempio delle tre o quattro generazioni di slavi del sud fedeli all’imperatore, quelle di von Trotta, che prestano servizio all’imperatore Francesco Giuseppe I degli Asburgo, figura miticamente lontana, rispettata da tutti, ma anche compassionata con dovuta distanza, sì persino pensata con un leggero sorriso sulle labbra.

Non si può non considerare due cose: Senza partecipare all’azione nel senso più stretto la personalità dell’imperatore fluttua su tutta la trama epica. Come un deus ex machina divenuto mito ancora in vita – nessuno può ricordarsi di un periodo senza l’imperatore! – questi interviene nei destini dei von Trotta in modo protettivo. Ma d’altra parte l’immagine dell’Austria di Joseph Roth che qui si rivela ai nostri occhi ha con Vienna, capitale dell’impero e residenza imperiale, solo poco a che fare, e quel poco solo in modo marginale; ciò si rispecchia nelle esistenze dei funzionari, ufficiali e anonimi soldati sbattuti nelle province dell’ampio impero apostolico nonché nel particolare carattere ctonico del paese in cui il rappresentante del grande apparato austriaco vive ben tollerato, forse ammirato e persino invidiato, ma in nessun caso inglobato nella sua vita di provincia. La radicata insuperabile estranietà trova la sua realtà simbolica nella caserma imperiale che interrompe una vecchissima strada di campagna situata nel bel mezzo della provincia slava:

La caserma si trovava nel nord della città. Chiudeva l’ampia e ben curata strada

di campagna che dietro l’edificio in mattoncini rossi dava inizio ad una nuova vita

e si addentrava nell’immenso paese blu. Sembrava come se la caserma fosse stata

posta là nella provincia slava dall’esercito imperiale e reale come un segno della

potenza asburgica. Alla stessa vecchissima strada provinciale, così larga e spaziosa

per l’esodo di stirpi slave durato secoli, sbarrava il passo. La strada provinciale

aveva dovuto evitarla. Questa faceva un arco intorno alla caserma. Se ci si trovava

all’estremo bordo settentrionale della città, alla fine della strada, là dove le case

diventavano sempre più piccole divenendo alla fine poco più che casupole di paese,

allora si poteva vedere nelle giornate con buona visibilità l’ampio portone a volta

color giallo nero della caserma in lontananza che veniva tenuto di fronte alla città

come una potente insegna asburgica, una minaccia, una protezione, ed ambedue

allo stesso tempo.(I, 54 f. Tutte le citazioni seguenti si riferiscono al volume I.)



Il simbolismo dell’ultima inutilità di una compenetrazione oppure anche solo adeguazione appare chiaro. La doppia funzione della caserma come simbolo di potere viene riassunta nelle espressioni “minaccia” e “protezione”. Nel corso del romanzo viene alla luce sempre più chiaramente questa doppia natura del rapporto. Roth tenta di mostrare il raggio riflesso dell’idea austriaca dello stato dei popoli nei paesi più lontani da Vienna nei quali si muovono le forze centrifughe di questa, idea che d’altra parte fa frammentare l’unificato corpo statale sovranazionale in piccole nazioni indipendenti con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ed a partire dalla morte dell’imperatore Francesco Giuseppe I; nazioni che da parte loro non raggiungeranno di contro da nessuna parte lo stato di una nazione vera e propria poiché hanno ricevuto tutte come microcosmi l’eredità di uno stato formato da più popoli senza essere divenuti consapevoli della più profonda missione dello stato sovrapopolare austriaco consistente in una tolleranza nei riguardi delle minoranze.

Quindi non si sviluppa, come lascia pensare il titolo LA MARCIA DI RADETZKY, la nostalgica immagine ideale di un mondo destinato inesorabilmente alla fine, invece Roth mette qui in evidenza già tratti che accanto al decorso epico di uno scorrere di avvenimenti storici puntano lo sguardo anche sull’atavismo anacronistico della monarchia e con ciò rendono a priori la fine di questo mondo non affabile. Il conte polacco grande austriaco Chojnicki articola questa conoscenza della fine: “Nel castello di Francesco Giuseppe si accendono spesso ancora delle candele. Capite? La nitroglicerina e l’elettricità ci distruggeranno! Non passerà ancora molto tempo, non molto ancora!” (151)

Già lo stato d’insubordinazione dell’eroe di Solferino che salva la vita del giovincello imperatore, l’antenato del barone von Trotta, - frutta al giovane ufficiale l’Ordine istituito da Maria Teresa per le gesta eroiche, caparbie e di non ubbidienza (inimmaginabile in Prussia!) e il rango nobiliare – è un’allusione di sottofondo alla decisione personale in un sistema inpersonale.

D’importanza fondamentale per il contenuto del libro è il fatto che l’eroe di Solferino è il figlio di un soldato semplice slovacco ed il nipote di un contadino proveniente dal confine balcano. Lui ed ancor più suo figlio, il capitano di distretto, vogliono in modo consapevole – salendo ad un più alto livello austriaco – non riconoscere in sé i sentimenti di appartenenza alla patria di tipo provinciale. Questi si aprono un varco lentamente in un impulso di sangue a stento ammesso e in un’estraniazione dalla realtà geograficamente condizionata e di temperamento moderato, in un’unione istintivamente anelata con gli ucrainici dello stesso ceppo, nell’ultimo membro dei Trotta che nei fumi del suo alcol con occhi torbidi ha sentore della fine che si avvicina. Questo è anche ciò che spinge Carl Joseph ad anelare coi suoi superiori un trasferimento nella patria dei suoi antenati, un desiderio che tuttavia non contraddice solo il principio erariale del regolamento austriaco – lasciare gli impiegati statali nella loro patria – ma che viene anche disapprovato a pieno dal padre, il fedele capitano di distretto:

Lui stesso, il capitano distrettuale, non aveva mai provato il desiderio di vedere la patria dei suoi antenati. Lui era un austriaco, servitore e funzionario degli Asburgo, e la sua patria era la residenza imperiale a Vienna. Se lui avesse avuto idee politiche per una utile trasformazione del grande e variegato impero, allora gli sarebbe piaciuto vedere in tutti i paesi della corona solo grandi e colorati atri della residenza imperiale, e in tutti i popoli della monarchia i servitori degli Asburgo. Lui era un capitano distrettuale. Nel suo distretto rappresentava la maestà apostolica. Portava il colletto dorato, il cappello all’alizarina e la spada. Non desiderava affatto condurre l’aratro sulla benedetta terra slovena. Nella lettera decisiva a suo figlio c’era la frase: “Il destino ha fatto della nostra stirpe di contadini di confine dei veri e propri austriaci. Vogliamo rimanere tali.” (116)



A lui, il padre, è dunque del tutto estraneo il pensiero di appartenere ad un ceppo proprio, sì addirittura mal visto. Vede solo disubbidienza cieca nei nazionalismi che si fanno sempre più sentire, una prepotenza impertinente di una gioventù senza Dio contro il sacro concetto d’imperatore che si muove nei capisaldi di un mondo nel quale l’imperatore è pilastro principale accanto al papa, ancorato all’ubbidiente credo nel Signore. Con una nota di tragica ironia il conte Chojnicki, che è consapevole con deplorazione dell’anacronismo austriaco, constata:

La nuova religione è il nazionalismo. I popoli non vanno più in chiesa. Visitano i

clubs nazionali. La monarchia, la nostra monarchia, è fondata sulla devozione: sul

credo che Dio ha scelto gli Asburgo per regnare sui molti tal dei tali popoli cristiani.

Il nostro imperatore è un fratello secolare del papa, è la Sua Maestà Apostolica impe- riale ,nessun altro è come lui: apostolico, nessun’altra maestà d’Europa dipende così

tanto dalla grazia di Dio e dalla fede dei popoli nella grazia divina. L’imperatore

tedesco regna, se Dio l’abbandona, ancora; eventualmente per grazia della nazione.

L’imperatore d’Austria e d’Ungheria non può venire abbandonato da Dio. Ma ora

Dio l’ha abbandonato! (150)



Queste sono tuttavia le riflessioni di un ironico pragmatico, del nobile cavaliere polacco che in tutta fedeltà guarda verso la fine del suo proprio mondo senza illusioni, in piena consapevolezza della sua impotenza di combattere contro.

Del tutto diverso è il capitano distrettuale. All’ombra del quadro del suo grande padre, l’illustre eroe di Solferino, un Don Quixote redivivus, questi combatte apertamente ed in segreto con tutti i mezzi a sua disposizione nella burocrazia contro l’epidemia del nazionalismo che si sta diffondendo a mo’ di cancro, un processo di disgregazione mortale dal quale non sono neppure esclusi gli austro-tedeschi pangermanisticamente contagiosi o meglio i boemo-tedeschi:

Nel “Fremdenblatt” ieri si era potuto ancora leggere che gli studenti tedeschi a

Praga cantano La guardia sul Reno, questi inni dei Prussiani,i nemici storici dell’

Austria alleati con quest’ultima. Di chi ci si poteva ancora fidare? (132f)

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