giovedì 12 maggio 2011

Saggi (II parte) L'immagine dell'Austria nella "Marcia di Radetzky"

Adolf D. Klarmann

L’immagine dell’Austria nella “Marcia di Radetzky”

Traduzione dal tedesco all’italiano di Gianni Casoni.

Il mondo del capitano distrettuale, che lui ritiene suo più alto dovere e missione difendere dai nemici interni, viene visto da questi messo sottosopra e riempito di buchi per mano dei separatisti ed irredentisti ostili alla monarchia, che conducono il loro gioco torbido e da traditori con simulazioni troppo ingannevoli. Lui deve stare attento a questi con la più grande ed intransigente severità per prevenire il diabolico tradimento. Il nemico minaccia dall’interno e dall’esterno. Questo fedele servitore del suo padrone deve andare dappertutto alla caccia di fantasmi.

Ieri c’era stato di nuovo un raduno di lavoratori cechi. Era stata annunciata una festa

di rappresentanti., delegati provenienti dagli “stati slavi” – con ciò s’intendevano Serbia

e Russia, ma nel dialetto ufficiale non erano stati mai citati – sarebbero dovuti venire

già il giorno successivo. Anche i socialdemocratici di lingua tedesca si fecero notare.

Nella filanda un operaio fu picchiato dai suoi colleghi, presumibilmente e secondo i

resoconti di spionaggio, perché si rifiutava di entrare nel partito rosso. (131)



Il capitano distrettuale si pone dunque come difensore dell’ordine superiore, della supremazia e dignità dell’imperatore in un modo che corrisponde all’ethos dello stretto orizzonte del funzionario, modo che non lo fa nemmeno esitare a ricorrere alla violenza tutte le volte che lo ritiene necessario. La sua presa di posizione è combattiva. Del tutto diverso è il conte Chojnicki. Lui sa molto tempo prima dello scoppio della guerra che l’Austria è persa. Gentleman e cavaliere, quale egli è, il suo sapere non esercita alcuna influenza sulla sua fedeltà fino all’amara fine che supera persino i suoi presagi pessimistici e fatalisti che mettono in evidenza il non poter sfuggire al destino storico già segnato. Prima ancora che il colpo di Sarajevo sia partito lui ha rinunciato rassegnato alla sua Austria, al luogo d’azione della sua vita, allo spazio vitale che per lui significa tutto senza aver trovato nella Polonia o nell’Ucraina un controvalore. Con la fine dell’Austria lui perde l’unica patria e non conosce più nessun’altra. Certo letteralmente parlando al momento la monarchia esiste ancora, con il suo esercito ed i suoi funzionari, ma per quanto tempo ancora?

Ma questa sta cadendo a pezzi ancora in vita. Si disgrega, si è già disgregata! Un

vecchio, destinato a morire, messo in serio pericolo da ogni raffreddore, mantiene il

vecchio trono, per il semplice miracolo di poter sederci ancora sopra. Per quanto tempo ancora? Per quanto tempo ancora? Il tempo non ci vuole più! (150)



Certo gli argomenti del conte confondono, proprio per sua voce sembra qui parlare la negazione Rothiana, in modo più sconvolgente. Ma nonostante un tacito assenso il capitano distrettuale non si può piegare di fronte ad essi e tanto meno può comprendere il nuovo tempo che si fa sempre più largo. Tanto più tragica è la scomparsa della sua stirpe nei primissimi giorni di guerra realizzatisi nella morte del suo unico figlio, il tenente Carl Joseph von Trotta. Per naturale, ovvio senso di correttezza, con un gesto istintivo di riparazione contro la crudeltà militare cieca e priva di senso che vede nella sua perversione un traditore dietro ogni slavo dell’est, slega dal palo tre impiccati ucraini, due contadini con il loro pope, e li seppellisce con le proprie mani. Von Trotta trova la morte nella grandine di proiettili provenienti dagli spari russi allorché si accinge a portare acqua a soldati ucraini che non possono estinguere la loro sete nel pozzo poiché questo è intasato dai cadaveri. Egli non muore da eroe, ma non sfugge neppure alla morte, redenzione da tutti i conflitti.

Il capitano distrettuale se ne sta là tutto solo poiché la morte del figlio gli lascia presagire l’immanente futura morte dell’imperatore.

Con precisione che non lascia spazio a più interpretazioni Joseph Roth illumina più chiaramente ed in maniera più definitiva il processo di disgregazione della monarchia che s’innesca improvvisamente in modo acuto prima dello scoppio della guerra nel reportage sulla festa estiva della cavalleria tenutasi presso il conte Chojnicki nella quale irrompe improvvisa la notizia dell’attentato di Sarajevo. Mentre gli aristocratici ungheresi salutano con gioia non nascosta la morte del principe al trono Francesco Ferdinando amico degli slavi e della sua consorte: “Abbiamo convenuto, la mia gente ed io, che possiamo essere ben felici quando il porco è morto!” (279), il capitano di cavalleria sloveno Jelacich fedele all’Austria protesta contro l’arroganza ungherese, un connazionale dunque dei von Trotta, che odia così tanto l’Ungheria quanto ama la monarchia. Joseph Roth allude qui abilmente alla dura oppressione delle minoranze da parte dell’Ungheria rispetto al trattamento relativamente mite e a grandi linee piuttosto tollerante in Austria. Al contrario degli ufficiali ungheresi Jelacich è un vero e proprio patriota austriaco:

Una parte dei suoi compagni di stirpe, gli Sloveni e i loro cugini, i Croati, viveva sotto

il diretto dominio ungherese. Tutta l’Ungheria separava il capitano di cavalleria

Jelacich dall’Austria, da Vienna e dall’imperatore Francesco Giuseppe. A Sarajevo,

quasi nella sua patria, era stato ucciso l’erede al trono, forse per mano di uno sloveno,

come lo era del resto il capitano di cavalleria Jelacich … Di fatto si sentiva anch’egli

un po’ colpevole. . Da circa centocinquantanni la sua famiglia serviva onestamente e

con devozione la dinastia degli Asburgo. (218f)



Il patriota Jelacich diventa consapevole di certi antecedenti oscuri nella sua famiglia, antecedenti di cui lui dapprima a stento prende atto. Nonostante le generazioni che la famiglia ha passato al fedele servizio dell’imperatore una estraniazione tra lui ed i suoi figli mezzo cresciuti che altrimenti l’adorano si manifesta nascosta ed ancora innocente. Senza prenderlo ancora seriamente lui nota che si sono messi a leggere volantini proibiti. Parlano anche dell’indipendenza di tutti gli slavi del sud. La loro mente era rivolta interamente non più a Vienna, bensì a Belgrado. Ciò contro cui interviene con tutta durezza il capitano distrettuale von Trotta in qualità di luogotenente del suo imperatore viene riconosciuto dal capitano di cavalleria Jelacich come l’inarrestabile cammino del destino, contro cui sarebbe vano opporre resistenza:

Era intelligente, e sapeva che lui stava impotente tra i suoi avi ed i suoi successori, che

erano destinati a diventare gli avi di una stirpe del tutto nuova. Avevano il suo volto, il

colore dei suoi capelli e dei suoi occhi, ma i loro cuori battevano ad un nuovo ritmo, le

loro teste serbavano pensieri sconosciuti, le loro gole inneggiavano canti nuovi e

stranieri che lui non conosceva. E con i suoi quarantanni il capitano di cavalleria si

sentiva come un vecchio, ed i suoi figli gli sembravano dei pronipoti incomprensibili.

(219)



I loro cuori battevano ad un ritmo nuovo. In questo riconoscimento si trova la chiave della conclusione finale di Joseph Roth sul destino dell’Austria. Per quanto poi possa essere stata sublime l’idea di questa compagine di stati, questa è stata superata, ed ora irrompe un nuovo periodo con sentimenti meno delicati, con nuovi rapporti di fedeltà, con altri concetti di cultura ed ideali. Se questi siano migliori, più degni d’essere desiderati rispetto ai secoli di un vecchio stato comprendente più popoli organicamente edificato su una propria unità spirituale, su una civitas Dei, come l’aveva chiamata così bene Franz Werfel, tale domanda viene lasciata dal poeta, come anche dal suo capitano di cavalleria Jelacich in ultima analisi senza risposta.

La conoscenza della tragicità del destino austriaco, che il capitano di cavalleria Jelacich sperimenta nella separazione dai suoi figli e dai suoi mondi, come anche d’altra parte del logico storico pessimismo del conte polacco Chojnicki – sia ancora una volta puntato il dito sul fatto che in tutte queste figure determinanti del romanzo si tratta sempre di nuovo di slavi o di discendenti da slavi, con l’eventuale eccezione del medico di reggimento ebreo, dunque in ultima analisi di tipici personaggi austriaci – divide alla fine il tenente Carl Joseph von Trotta divenuto apatico e perspicace per istinto nonostante l’alcolismo ed il malessere/disagio di provincia. Quando era giovincello il cadetto non aveva dubbi. L’eredità dell’eroe di Solferino credeva ciecamente alle verità che il padre e la scuola gli avevano tramandato come tradizione eternamente valida:

Lui conosceva i nomi di tutti i membri delle casate più elevate. Li amò tutti con

sincerità,con un cuore devoto da fanciullo, prima di tutti gli altri l’imperatore, che

aveva un animo grande e buono, era sublime e giusto, infinitamente distante e pur molto

vicino, particolarmente affezionato agli ufficiali dell’esercito. Si avrebbe preferito

più di ogni altra cosa morire per lui al suono della musica militare, il più semplicemente

con la Marcia di Radetzky. (23)

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