martedì 3 maggio 2011

Dispense (I parte)

Martha Woersching

L’utopia rivolta al passato

Osservazioni psicologico sociali sul romanzo di Joseph Roth “La marcia di Radetzsky”

La tradizione dell’ambiente poetico tedesco politicamente “indifferente” impone silenzio in tutte le questioni della vita pubblica. Prima della rivoluzione questo silenzio era ancora percepibile, oggi stordisce. Si sovrappone al rumore barbarico della reazione ed all’acuto grido di morte delle sue vittime … Dai tempi di Goethe lo ritengono un loro dovere, intraprendere il “viaggio in Italia” obbligato, reale e metaforico, che è poi una fuga dalla Germania, - ma mai ammesso come tale. E’ stata sempre “necessità interna” simulata dimenticare le condizioni riprovevoli e indegne della situazione nazionale, politica e sociale di qua …

Così scrive Roth nel 1924 nell’ “Avanti” di Berlino. Tristemente ha descritto qui il suo proprio atteggiamento della sua vita tarda. E’ ancora il Roth “rosso” che pubblica nei giornali di sinistra di Vienna (“Il nuovo giorno”) e Berlino (“Avanti”, “Republikanisches Witzblatt Lachen links”) le sue glosse ed i suoi saggi politici. Che egli già persino pochi anni più tardi intraprenderà questo “viaggio” dalla realtà sembra rendere i primi lavori inattendibili a posteriori. Roth stesso tende a degradare il suo atteggiamento socialista definendolo un errore giovanile. Dunque si può spiegare il crescente conservativismo di Roth come un segno normale dell’età che avanza; con la formula da rivoluzionario a monarchico non gli si rende giustizia. Se ci si mette a leggere i suoi primi saggi politici ed i suoi racconti e romanzi della sua vita tarda allora vengono fuori dubbi che si tratti dello stesso autore. Nessuna sorpresa se Roth voleva prendere le distanze dal suo passato “ideologico”. La sosta nell’ “ambiente poetico tedesco” aveva avuto luogo – ma dovevano accadere ancora alcune cose nella “vita pubblica” per far sì che lui volgesse decisamente le spalle da questa e fuggisse in quella privata. Nel 1931, quando è impegnato con la “Marcia di Radetzky”, scrive ad un amico:

Non c’è cosa più importante che occuparsi della propria vita privata, amare la moglie, prendere in grembo i figli … Tutto ciò che concerne la vita pubblica di un paese non vale niente, il paese, la politica, i giornali, la croce uncinata, la democrazia.

Questo voltare le spalle in modo ostentativo alla vita politica, il tentativo di entrare in una piccola cerchia di amici letterati, ed alla fine l’immergersi in un mondo fittizio di tipo molto particolare – tutto ciò deve avere motivi che non sono da ricercare semplicemente nel fatto che Roth era un outsider ed un ebreo senza patria, anche se a Reich-Ranicki piace argomentare così.

Per poter esistere Roth dovette perdersi ad inventare. Per tener testa alla vita aveva bisogno di un mondo di contrasto.

Non sembra inutile prendere in considerazione più dettagliatamente questa “vita”, la realtà storico sociale con la quale Roth si è confrontato a suo modo, quella “vita” che gli rese la vita difficile. Dapprima dunque uno sguardo al mondo degli anni venti ed inizio degli anni trenta; dopodiché viene analizzato il “mondo di contrasto” che sta con quello sopra citato in una connessione del tutto particolare. – sull’esempio della “Marcia di Radetzky”.

La “vita” non significava naturalmente per ognuno la stessa cosa nel periodo che va dalla Prima Guerra Mondiale fino alla ascesa al potere di Hitler; ci si doveva confrontare con essa in modi del tutto differenti: per l’uno questa portava disoccupazione e fame; per l’altro perdita di patrimoni privati oppure distruzione di tutte le speranze politiche, pericolo di proletarizzazione, minaccia della liberta politica e personale; acquisto di grandi patrimoni privati, concentrazione di potere ecc. La labilità economica ed il crollo finale del 1929 ebbero diverse conseguenze a seconda dello stato sociale degli interessati. Non è sicuramente una soluzione particolarmente a portata di mano, quando Roth si abbandona al pensiero di far resuscitare il mondo sano in una, come egli ben sa, monarchia danubiana divenuta impossibile. Che la sua reazione personale alla situazione storico economica e politica risulta proprio così, non è nemmeno casuale, bensì mediata – e certo riconoscibile – dipesa dalla società.

Più avanti viene schizzata un’immagine inevitabilmente grezza della situazione politico economica della Repubblica di Weimar.

La forma economica dominante in Germania e in Austria agli inizi del secolo si distingueva dal capitalismo classico (per es. di stampo inglese) per il suo proprio sviluppo storico che si presentò relativamente tardi, ma poi in modo ancora più deciso. La cornice politica assolutistico feudale impediva che con lo sviluppo delle forze sociali produttive potesse crescere di pari passo l’influenza della borghesia: la rivoluzione democratica non ebbe luogo, il liberalismo si fermò sul nascere. In questa circostanza la rivoluzione industriale del 19° secolo ha trasformato il paese in una grande potenza orientata alle armi, che si espande in modo imperialistico; nacque qui un sistema economico del capitalismo industriale, dominato da un’oligarchia di borghesi capitalisti, uno strato sociale di latifondisti secondo la sua origine del tutto feudale ma dal punto di vista economico tuttavia capitalista ed una casta militare che secondo la sua origine molto vicina ai latifondisti stessi, dunque un cartello di potere che fu reso sicuro ancor di più nella sua esistenza dall’istituzione della monarchia. Con la fine della Prima Guerra Mondiale si ebbe una situazione potenzialmente rivoluzionaria: i rapporti politici divenuti obsoleti dovettero venir sostituiti da dei nuovi. La storia della Repubblica di Weimar, al cui inizio sta l’abolizione della monarchia, è la storia del confronto delle classi per il potere sociale e termina alla fine – in Austria nella dittatura borghese, in Germania nel fascismo. Il proletariato oppresso e non più regolamentato dallo statalismo autoritario, la cui situazione economica era fortemente peggiorata durante la guerra, faceva ora richieste politiche; a causa dell’inflazione parti del ceto medio persero le loro basi esistenziali ed erano minacciate dalla proletarizzazione; le conseguenze dell’inflazione significarono al contrario per l’industria una crescita potente, sebbene naturalmente non sana. Dopo la stabilizzazione del marco nel 1924 e l’accettazione dei piani Dawes cominciò un periodo di crescita economica, favorito dal flusso di capitale straniero e dalla incrementata razionalizzazione. Manfred Clemenz riconduce l’ondata di razionalizzazione a quattro fattori: a) inasprimento della concorrenza internazionale; b) investimento dei guadagni della grande industria fatti con la guerra e l’inflazione; c) crescente potere economico e politico del movimento operaio; d) esperienze dell’economia di guerra (razionalizzazione, coordinamento della produzione, ecc.). Ed è del parere che il movimento di razionalizzazione sia stato, così come il movimento di concentrazione, non solo un fenomeno economico bensì anche politico: ambedue sono serviti a riconquistare il terreno politico perso dopo il 1918 sotto la pressione del movimento dei lavoratori.

Nei primi anni del dopoguerra si giunse ad alti livelli di disoccupazione, e dopo la stabilizzazione le razionalizzazioni condotte senza tener conto delle conseguenze sociali hanno fatto in modo che questi livelli continuassero a salire. La disoccupazione era anche negli anni dell’alta congiuntura 1927/28 maggiore che prima della guerra ai tempi della depressione. Nel 1928 il numero dei disoccupati in tutte le professioni in Germania ammontava a 600.000, era salito ad oltre il doppio entro la metà del 1929 (inizio della crisi) – 1,25 milioni, crebbe poi nel 1930 a 2,76 milioni, a 3,99 milioni nel 1931, ed aveva raggiunto nella primavera del 1932 la quota di 6,12 milioni. Operai ed impiegati ( il cui numero era aumentato enormemente attraverso la razionalizzazione e la centralizzazione dei processi lavorativi negli anni della Repubblica di Weimar ) divennero ora vittime della disoccupazione. Si può discutere sul quantum della schiavitù, ma la proletarizzazione degli impiegati non è da mettere in dubbio … Si è formato un esercito industriale di riservisti impiegati … - così scrive Siegfried Kracauer nel 1930. L’esercito dei piccoli e medi impiegati, appartenenti soggettivamente al ceto medio, soccombe oggettivamente al processo di proletarizzazione per via delle cattive condizioni di vita e lavorative – l’attività monotona, non libera, per sé stessa priva di senso all’interno di un’azienda anonima, suddivisa gerarchicamente. Pur tuttavia senza sviluppare una coscienza di classe proletaria. L’offerta in abbondanza sul mercato del lavoro di manodopera rende possibile agli imprenditori di dettare le condizioni in occasione dell’impiego del personale. Si lucra al massimo tutte le volte che vengono impiegati lavoratori giovani ed a buon prezzo, forze lavoro che già dopo pochi anni possono venire di nuovo smantellate. Il limite d’età nella vita lavorativa è sceso fortemente, e a 40 anni sono molti quelli che credono di vivere ancora in perfetta forma, ma che sono già morti sotto il profilo economico. Ci si disabitua presto al lusso di esprimere una opinione politica personale non adatta alle circostanze, quando si tratta di ricevere del lavoro, e con ciò una possibilità di tirare avanti. Proprio a causa della minaccia economica e della forte concorrenza l’uno con l’altro non si giunge ad alcuna vera solidarizzazione di tutti i lavoratori contro il capitale. Nutrono una coscienza sbagliata. Desiderano conservare le differenze il cui riconoscimento oscura la loro situazione …

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